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Riforma della politica agraria comunitaria: più programmazione e meno pianificazione
E' il cinquantenario della Pac ma l'Ue sembra aver smarrito la rotta. Occorre una seria riflessione sugli obiettivi del vecchio continente. La competitività economica e la sostenibilità ambientale non devono essere in conflitto tra loro
28 aprile 2012 | R. T.
Si sta celebrando quest’anno il 50° anniversario della Pac che rimane ancora l’unica vera politica unitaria europea e per la quale è in corso una revisione, la quinta negli ultimi 20 anni, che dovrebbe andare in vigore dal 2014 al 2020.
All’argomento, i Georgofili hanno già dedicato la prolusione dello scorso anno e poi approfondito la discussione attraverso otto adunanze pubbliche.
Il tema è stato nuovamente affrontato dal Presidente dell'Accademia dei Georgofili, Prof. Franco Scaramuzzi, nel corso dell'inaugurazione del 259° anno accademico, con un intervento che è stato al contempo di sintesi delle risultanze degli incontri precedenti e di integrazione con le notizie più attuali.
“Le ampie premesse della Pac – ha esposto Scaramuzzi - evidenziano intenti condivisibili tra i quali quelli di favorire “lo sviluppo della competitività” delle produzioni agricole, di affrontare “le crescenti preoccupazioni in materia di sicurezza dell’approvvigionamento sia nella UE che su scala mondiale”, di semplificare le procedure e di ridurre gli oneri amministrativi dei beneficiari, di mirare ad una crescita definita intelligente, sostenibile ed inclusiva. Ma, nelle successive parti, laddove si precisano le linee concrete di attuazione dei principi enunciati, non viene dato coerente ed adeguato seguito alla dichiarata consapevolezza del mutato scenario internazionale. Si propone invece una revisione di alcuni criteri già in atto, mantenendo sostanzialmente le stesse logiche attuali, manifestamente sensibili ad istanze ambientaliste e chiaramente mirate a scoraggiare chi intendesse continuare a svolgere solo attività produttive.”
Sembra quasi che la Commissione europea che, per la prima volta dovrà adottare l'atto secondo il meccanismo di codecisione con il Parlamento europeo, sia però già in imbarazzo rispetto alla proposta presentata, tanto che José Manuel Silva Rodriguez, Direttore generale della Commissione Europea per l’agricoltura, ha dichiarato che “la competitività economica e la sostenibilità ambientale non devono essere in conflitto tra loro”.
Un momento confusionale che si estrinseca anche in modelli concettuali e definizioni che dovrebbero essere le fondamenta della politica agricola.
“Dagli anni 2000 l’Unione Europea ha ritenuto – secondo Scaramuzzi - opportuno realizzare anche uno sviluppo “rurale”, accanto a quello “agricolo”, nell’intento di incentivare un maggiore equilibrio tra campagna e città, nei redditi, nel tenore di vita e nella distribuzione della popolazione. L’ambiguità derivante dall’uso di questi due termini, ormai da tempo diffusamente considerati sinonimi, per indicare cose che si vorrebbero invece distinguere fra loro, fu presto rilevata dalla stessa Commissione Europea, che già nel 2000 riconobbe l’impossibilità di trovare una inequivocabile definizione di “ruralità”. Ciò contribuisce a confondere, coprire, mimetizzare o comunque motivare l’inarrestata urbanizzazione delle campagne, che non ha certo bisogno di incentivi pubblici per dilagare ulteriormente. Tutto ciò non va solo a danno dell’agricoltura, ma anche dell’ambiente e di quanto ha sempre costituito i pregi unici delle campagne, che si vorrebbero e si dovrebbero invece tutelare.”
Ma che fare? Franco Scaramuzzi si è concentrato soprattutto su cosa non fare e sugli errori attuali della Pac che andrebbero sì cancellati o rimodulati. Tra questi la condizionalità.
“Quando le scelte politiche indicano linee programmatiche per lo sviluppo e decidono di incentivarle concedendo sostegni finanziari, comunque configurati, le libere prerogative imprenditoriali vanno sempre rispettate e coinvolte. Concedendo, invece, finanziamenti solo a chi accetti condizioni vincolanti, si va oltre i limiti di una programmazione e in realtà si attua una forma concreta di pianificazione, sia pure indiretta. Questo è appunto il carattere che assume la “condizionalità”, già applicata con la PAC e confermata per il prossimo futuro. Nelle loro attuali condizioni economiche, molti agricoltori sono costretti ad accettare qualsiasi direttiva vincolante, assumendo in proprio i rischi di ogni possibile danno, anche nel tempo. Pensiamo, ad esempio, al nuovo provvedimento denominato greening, che prevede di sottrarre alle aziende agricole un preciso 7% della loro superficie coltivata, non per lasciarla incolta temporaneamente (come nel set-aside), bensì con il presumibile intento di mantenerla come area verde permanente. Ciò potrà forse favorire la fauna selvatica ed i cacciatori, ma è difficile pensare che un tale provvedimento possa essere adottato per ridurre l’“effetto serra”, in base alle differenze, nella variabile capacità di assorbimento della CO2, tra il verde di una flora locale spontanea e quello delle piante coltivate. L’eventuale, presunto vantaggio sarebbe comunque pagato a caro prezzo, soltanto dagli agricoltori, decurtando l’intera produzione agricola europea. Inoltre, la riduzione della superficie coltivata causerà, sia pure in misure diverse, un ulteriore trasferimento di addetti all’agricoltura verso attività più inquinanti. Analoghe perplessità suscita l’imposizione ad ogni azienda di coltivare contemporaneamente almeno tre seminativi diversi. Continuano così ad emergere velleitarie suggestioni pianificatrici, che la storia ha già più volte sperimentato e giudicato. Questo dirigismo vincolante della condizionalità potrebbe, fra l’altro, moltiplicare anche le tentazioni di raggirare l’eccessivo numero di norme e di controlli, aumentando ulteriormente la burocrazia ed i suoi costi.”
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