Italia
Parte un forte impulso di rilancio per l'olivicoltura eroica del Monte Etna
Un viaggio in Sicilia per scoprire una realtà estremamente operosa e ricca di stimoli. A partire dagli oli da agricoltura biologica, le attenzioni verso un comparto che ha ancora molto da esprimere delle proprie potenzialità
26 luglio 2008 | Luigi Caricato
L'occasione per visitare il comprensorio del Monte Etna è scaturita dalla mia presenza, in veste di moderatore di un convegno, all'interno di una giornata dedicata all'olivicoltura biologica. Inutile nascondere l'entusiasmo che si prova a pelle nel visitare un territorio dalle grandi potenzialità . Qui ho trovato le persone giuste per poter avviare, in grande stile, un'operazione di rilancio di una olivicoltura che apparsa ed è in fondo ancora caratterizzata da una certa marginalità non per propria scelta, ma per ragioni strettamente legate alle specificiità del paesaggio e alle stesse peculiarità ambientali.
Qui è la terra d'elezione della cultivar Nocellara Etnea, alquanto diffusa nella Sicilia centro-orientale, varietà base per ottenere l'olio destinato alla Dop "Monte Etna". Ma la cultivar in questione è anche nota per la sua attitudine a forire un'oliva buona da destinare al consumo tal quale, quale oliva da mensa, appunto. E quanto sono buone, c'è solo da impegnarsi nel perfezionare le tecniche di preparazione e far tesoro di una potenzialità ancora inespressa.
A fare da cicerone alla mia visita è Giuseppe Pennino, anima dell'Unità Operativa 44, coincidente con il Distretto Etna dell'Assessorato regionale all'Agricoltura. Una gentilezza e una dedizione, la sua, davvero impareggiabili, con un'accoglienza che fa della Sicilia una terra ospitale e generosa senza pari. Con lui ragioniamo dei mali dell'olivicoltura italiana e alla mia valutazione positiva dell'olivicoltura siciliana, nonostante l'aria di diffuso malessere che si respira in giro per l'Italia lo rincuora, ma, so benissimo che nelle sue intenzioni c'è ben altro: una Sicilia che vinca la grande sfida dei mercati. Soprattutto la sua Sicilia, quella etnea, perché ne ha più bisogno, visto che l'olivo qui è una presenza ancora marginale e periferica. Però le aziende che hanno buoni propositi in testa ce ne sono. E infatti con Pennino, e con altri due compagni di spedizione, Euplio Vitello, funzionario presso l'Unità Operativa di Paternò, e Biagio Pulvirenti, agronomo della Società Cooperativa Agricola Produttori Olivicoli, l'Apo, la ex Associazione Produttori Olivicoli di Catania.
Insieme ci muoviamo tra le aree meno conosciute e battute dai turisti: un paesaggio di una bellezza incantevole, dove emerge l'operosità dell'uomo che ha saputo portare pazienza di fronte alle bizzarie della Montagna. La lava che cola e che cancella anni e anni di lavoro, la fatica di ricominciare, ma sempre la voglia di ripetere, di non smettere mai. E' un'olivicoltura eroica quella che si scorge. Però, là dove è possibile, si cerca di investire in nuovi impianti, in quegli angoli di territorio che ne favoriscono la coltivazione.
L'oliva regina qui è la Nocellara Etnea, dunque. Detta altresì Verdese, nel ragusano; e Zaituna o Marmorigna in provincia di Catania. E provvidenziale in tal senso è il meritorio lavoro portato avanti da un nutrito gruppo di lavoro, a cura di Tiziano Caruso, Dario cartabellotta e Antonio Motisi, con le qualificati apporti di altri, tra cui vi è lo stesso Giuseppe Pennino. Tale lavoro è dettagliatamente documentato nel volume Cultivar di olivo siciliane, con un sottotitolo ch'è esemplificativo di quel che si trova nel libro: Identificazione, validazione, caratterizzazione morfologica e molecolare e qualità degli oli.
Qui la qualità è la parola d'ordine per sfondare sui mercati. Le aziende che hanno puntato non più sulla qualità media, ma sull'eccellenza, stanno riscontrando già i primi consensi da parte del vasto pubblico dei consumatori.
E' soddisfatta Angela Arcoria, che con il marchio ArcoBio, è presente sul mercato con un olio che vuole imporsi all'attenzione per le peculiarità del profilo organolettico. La sua azienda è ubicata in contrada Sferro, nel comune di Paternò. Analoga soddisfazione per Sebastiano Consoli, che con i fratelli, gestisce un moderno frantoio all'avanguardia, con sede ad Adrano, dove oltre a confezionare l'olio a marchio Consoli, con certificazione da agricoltura biologica e Dop, sperimenta su molti altri fronti, lavorando per esempio su alcuni progetti relativi alla riutilizzazione degli scarti di lavorazione del frantoio. Ma di lui ci sarà occasione di riparlarne.
Felice Stagnitta del Frantoio Le Valli dell'Etna di Stagnitta e Pagano, sito a Linguaglossa è orgoglioso del proprio lavoro e degli ottimi risultati conseguiti. Per esempio con gli oli dâalta quota: quello a marchio â1068â da cultivar Brandofino (il numero si riferisce allâaltitudine!) e quello a marchio âSole delle Terre Nereâ, un blend di Nocellara Etnea e Brandofino. Anche di lui ci sarà molto da dire, e infatti ritorneremo ancora a raccontare lâolivicoltura etnea, più avanti. Lâoccasione di questo viaggio in Sicilia è stata la giornata dedicata agli oli biologici, con premiazione di quelle aziende che si sono distinte al recente Premio Biol. Ma prima dellâincontro, vale la pena ricordare una magnifica visita in cima al vulcano, con Giuseppe Spina, direttore del Parco dell'Etna (di cui scriveremo più avanti, nei prossimi numeri)
e di Franco Emmi, una guida del parco che mi ha fatto capire la forte immedesimazione della gente del luogo per la Montagna, come appunto la chiamano qui.
Eâ stato disarmante Emmi, quando mi ha detto: âIl monte Bianco? Quello è mezzo morto. La nostra Montagna invece è viva, respira, mangia, vomitaâ. Belle parole, ricche di poesia, dirompenti. E in effetti lâEtna era in eruzione, lo spettacolo era commovente, lâaria carica di zolfo, fumi di vapore dal terreno lavico tuttâintorno. Uno spettacolo che non si può raccontare, va solo visto, e sentito. Sì, perché lâEtna parla, alle volte ruggisce. Non si è mai soli lassù, in cima. La Montagna è viva e fa paura, ma mette anche pace e tranquillità , chiede silenzio per essere ascoltata.
Nel corso della visita, lo spettacolo era coinvolgente. Lâolivo non domina il paesaggio, sono gli aranceti che hanno maggiore centralità . Però lâolivo custodisce gli aranci, fungendo da piante frangivento. Nei suoli più difficili lâolivo convive con il pistacchio. Basta osservare il terreno nel quale si aggrappano le radici per rendersi conto di quanto sia complicato produrre. Gli olivicoltori di montagna possono sentirsi fieri dei propri sforzi. Si possono scorgere oliveti perfino a mille metri dâaltitudine. Eâ una grande sfida. Le piante crescono lentamente sulla sciara, le radici scavano un varco tra la roccia lavica.
Raccontare tutte le emozioni provate non è possibile, alcune di queste si depositano dentro, nella memoria, senza mai cancellarsi. Però è una promessa, sul territorio intorno allâEtna ritorneremo. Ora lâattenzione rivolta al convegno che ha preceduto la premiazione dei migliori oli biologici siciliani.
Non si fa qui la cronaca dettagliata del convegno, ma tra gli interventi ascoltati mi sembra giusto riportare alcune dichiarazioni che mi sono parse importanti ed emblematiche, e in effetti lo sono. Quella per esempio del professor Tiziano Caruso, il quale con grande lucidità ha sostenuto come âpiù che introdurre altre varietà provenienti dallâestero, si dovrebbe piuttosto cercare di valorizzare le nostre cultivar, il nostro vasto patrimonio varietaleâ. Un germoplasma, tra lâaltro, che solo da poco è stato preso nella giusta considerazione, seppure lâimpegno pionieristico in tal senso risalga a tempi comunque lontani. Nel 1882 câera stato, ricorda il professor Caruso, descrizione di alcune cultivar da parte di Girolamo Caruso, un suo omonimo. Poi nel 1952 erano state individuate 29 cultivar da parte di Bottari e Spina; quindi, nel 1986, era stata allestita la collezione Carboy, per giungere nel 1994 al primo screening delle cultivar su base fenotipica, da parte di Barone e altri studiosi. Fino al primo catalogo varietale del 2007, che comprende 25 cultivar.
Unâaltra dichiarazione che mi ha lasciato non certo sorpreso, ma che un poâ a dire il vero mi ha spiazzato per la perentorietà con cui è stata pronunciata, è quella della presidente di Aiab Sicilia Sillitti, la quale appunto ha sostenuto di preferire, per sé, la qualifica di produttrice piuttosto che quella di imprenditrice agricola. Può sembrare una sottigliezza di scarso rilievo, ma in realtà non lo è: è invece un chiaro messaggio di unâappartenenza. Come se un produttore non debba per questo diventare imprenditore, come se lâagricoltore debba restare tale senza trasformarsi in imprenditore; come se in fondo la qualifica di imprenditore fosse un poâ equivoca o comunque meno nobile. Ebbene, se nel 2008, in un contesto operativo completamente orientato al mercato, si fa ancora una puntigliosa distinzione tra le due qualifiche
vuol dire che effettivamente il nostro mondo agricolo (o quanto meno una parte di esso) non è ancora pronto a compiere il grande passo. E, secondo voi, è ancora possibile oggi pensare a un agricoltore che non sia nel medesimo tempo anche un imprenditore? Per me la distinzione tra le due qualifiche non aiuta certo lâagricoltura, ma la fa arrestare. Può essere il tema di un dibattito.
Infine, ma qui sarebbero troppe cose da riferire, è importante segnalare, al di là del fattivo e coinvolgente impegno di Giuseppe Pennino, su cui ritornerò, l'altrettanto operoso e appassionato lavoro svolto da Leonardo Catagnano, responsabile del settore olivicoltura all'assessorato della Regione Siciliana.
TESTI CORRELATI
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