Italia
Oddio, troppi enti pubblici si pappano l’agricoltura!
Sono realtà molto diverse tra loro, i cui attivi patrimoniali nel complesso sono tre volte l’ammontare del bilancio del ministero di riferimento, con organici costituiti da circa 4 mila unità lavorative. Sono davvero utili? A cosa servono per esempio scommesse e lotterie con la valorizzazione delle biodiversità? Ecco alcune ipotesi di riordino
05 novembre 2011 | Alfonso Pascale
Quanti sono gli enti pubblici che operano nell’agricoltura italiana? Non è stato mai fatto un inventario. Sono tantissimi. Solo quelli vigilati dal Ministero delle politiche agricole sono tredici. Ecco l’elenco: AGEA con le proprie società controllate AGECONTROL e SIN, BUONITALIA, CRA, ISMEA, INEA, INRAN, ISA, UNIRE, Ente Nazionale Risi, Ente Irriguo Umbro Toscano, Ente per lo Sviluppo dell’Irrigazione e la Trasformazione Fondiaria in Puglia, Lucania e Irpinia.
Si tratta di enti, molto diversi tra loro, i cui attivi patrimoniali nel complesso sono tre volte l’ammontare del bilancio del ministero di riferimento e i cui organici sono costituiti da circa 4 mila unità lavorative. L’età media dei dipendenti supera i 50 anni; il numero dei dirigenti è elevato in modo sproporzionato rispetto ai sottoposti; i programmi di formazione sono pressoché assenti. In alcuni casi si rilevano patrimoni netti fortemente negativi, servizi di bassa qualità e gestioni poco trasparenti, come nel caso dell’UNIRE. In altri, sono presenti fenomeni molto estesi di duplicazione, sovrapposizione e concorrenzialità nello svolgimento delle attività istituzionali, che denotano un grave deficit di governance. Emerge, infine, in molte situazioni, lo sconfinamento in attività del tutto incoerenti e improprie rispetto alle finalità istituzionali e volte esclusivamente a giustificare il sovradimensionamento degli organici. Cosa c’entrano – viene da chiedersi - le scommesse e le lotterie con la valorizzazione della biodiversità nel mondo dei cavalli o i servizi finanziari e fondiari con le attività di informazione agli agricoltori?
Un presenza così rilevante di enti strumentali a livello centrale è poi in piena contraddizione con la competenza esclusiva regionale in materia agricola. Da qui lo scollamento esistente tra tali strutture e le realtà produttive agricole e agroalimentari del paese. Non a caso la stragrande maggioranza degli agricoltori, degli operatori agroalimentari e dei consumatori non ha alcuna contezza delle attività svolte da questi enti. La partecipazione di tali strutture nei partenariati con altri soggetti nazionali (Università, CNR, ENEA, ecc.) e di altri paesi europei per accedere ai finanziamenti comunitari su temi di ricerca importanti per l’Italia è del tutto marginale. Eppure, le biotecnologie, i prodotti alimentari, l’agricoltura, la salute, l’ICT, le nanoscienze, l’energia, l’ambiente, le scienze socioeconomiche e umanistiche costituiscono i principali capitoli del VII Programma Quadro Europeo di Ricerca 2007-2013.
Occorrerebbe, pertanto, riorganizzare, ridurre e accorpare gli enti agricoli al fine di realizzare una più efficiente capacità di assicurare competenze di ricerca e servizi per favorire l’innovazione e la competitività delle diverse agricolture e dei differenti territori rurali. Si dovrebbero produrre concentrazioni e alleggerimenti, dismettendo attività e strutture inutili. Andrebbero eliminate sovrapposizioni di compiti e duplicazioni che determinano sprechi, inefficienze e una sottoutilizzazione delle energie intellettuali e professionali impiegate.
Quale innovazione per l’agricoltura italiana?
Per affrontare le nuove sfide, quali l’insicurezza alimentare, i cambiamenti climatici, la crisi energetica, lo sfruttamento incontrollato delle risorse naturali, l’incremento dei flussi migratori e gli squilibri territoriali, sarebbe necessario rafforzare la società della conoscenza, promuovere la crescita sostenibile e favorire l’inclusione sociale non solo mediante una profonda riforma della PAC, ma anche con un rilancio delle politiche agricole a livello nazionale e regionale e una razionalizzazione incisiva dei relativi strumenti operativi.
Le agricolture e i territori italiani hanno bisogno di puntare sull’innovazione, da intendere non solo come innovazione tecnologica ma soprattutto come innovazione sociale, ossia come produzione di nuove idee (prodotto, servizio, modello) che allo stesso tempo incontra bisogni sociali e crea nuove relazioni o collaborazioni sociali, superando la dicotomia tra innovazione di processo e innovazione di prodotto. Si tratta di creare reti formali e informali di relazioni tra diversi soggetti, che contribuiscono all’ideazione, concretizzazione e sviluppo dell’innovazione sociale. In particolare, la partecipazione attiva dei cittadini al processo di sviluppo delle innovazioni - in quando consumatori di alimenti e fruitori di servizi ambientali, socio-culturali e ricreativi riferiti alla ruralità – ha un ruolo cruciale nel determinare nuovi percorsi innovativi, con un ampliamento delle potenzialità e delle modalità di utilizzo dell’approccio dell’autoapprendimento, che si distingue nettamente rispetto ad interventi di assistenza e supporto. L’attenzione crescente dei cittadini nei confronti delle tematiche riferite al cibo, all’ambiente e al territorio rurale e l’affermarsi di una concezione del paesaggio come ricostituzione continua di identità e legami solidali da parte di comunità locali non chiuse in se stesse ma aperte a culture diverse, mette a dura prova la capacità degli agricoltori di partecipare all’innovazione sociale, dovendo adottare anch’essi in larga misura l’approccio dell’empowerment in stretta correlazione con altri soggetti sociali ed economici.
Elemento centrale dell’innovazione sociale a cui puntare è una diversa visione della competizione di mercato intesa come intreccio complesso di cooperazione e concorrenza (co-opetition). Si tratta di un modello che si distingue dal prevalente modello competitivo di tipo posizionale (c’è chi vince e c’è chi perde come in una gara sportiva) in quanto si fonda sul mutuo vantaggio dei soggetti dello scambio di mercato. Essi agiscono come un team per raggiungere obiettivi comuni in grado di avvantaggiare tutti i partecipanti dello scambio economico.
E’ un modello che si può applicare sia a livello locale che a livello globale concependo l’ingresso nello scenario economico di milioni di nuovi consumatori dei paesi emergenti non come mercati da conquistare secondo le mere logiche della competitività di tipo posizionale legate ai prodotti (marketing, comunicazione, marchi collettivi, ecc.), ma con l’approccio della competizione cooperativa. Si tratta di attivare grandi programmi di interscambio con paesi emergenti per costruire in scala planetaria reti di economie civili e solidali in cui i mercati dei prodotti agroalimentari interagiscono e sono tutt’uno con azioni di integrazione delle culture alimentari e di percorsi partecipativi che favoriscano un protagonismo dei cittadini in quanto consumatori di cibo e fruitori di ruralità. Costruendo le economie a rete si compete su come cooperare tra imprese, comunità e territori, uscendo dall’isteria suicida della competizione di tutti contro tutti.
La co-opetition non è, tuttavia, in contrasto con la cultura del merito e con la necessità di potare iniziative, strutture e attività che impediscono alle reti di crescere. Sono operazioni dolorose perché riguardano non solo rami secchi ma anche rami vivi; e, nel costruire e monitorare le reti, vanno effettuate con logiche partecipative ed inclusive. Si tratta di ancorare strettamente il processo di riordino degli enti agli obiettivi della Strategia Europa 2020 e ad un progressivo allineamento, in termini di valutazione dei risultati, agli standard di analoghe strutture esistenti negli altri paesi europei, per farne dei protagonisti attivi nella costruzione delle economie a rete.
Alcune ipotesi di riordino degli enti
Si potrebbe, ad esempio, pensare di accorpare in un unico ente, finalizzato a promuovere l’innovazione, le attività di ricerca, sperimentazione, rilevazione, analisi, previsione negli ambiti socio-economico, storico-etno-antropologico e di competenza scientifica riguardanti i settori agricolo, agro-industriale, forestale, ittico, degli alimenti, della nutrizione, delle sementi, dello sviluppo rurale, della valorizzazione delle risorse ambientali, della gestione delle risorse idriche e della manutenzione del territorio, svolte dal CRA, dall’INEA, dall’ISMEA e dall’INRAN. Un ente siffatto dovrebbe configurarsi come uno strumento agile con compiti di partecipazione - insieme alle Regioni e ai soggetti privati - a una rete di spin off universitari orientata a creare innovazione nell’agroalimentare, superando attività e funzioni, come il riordino fondiario e i servizi finanziari e informativi, che potrebbero essere svolte più efficacemente da altre strutture che operano nel mercato.
Si potrebbero, inoltre, riorganizzare l’AGEA e le analoghe agenzie regionali per ottenere un’efficiente gestione e controllo dei flussi finanziari derivanti dalla PAC, scorporando ogni altra funzione impropria e superando l’AGECONTROL e il SIN mediante l’adozione di scelte organizzative meno onerose.
Si potrebbe, per fare un altro esempio, dismettere l’ISI e inserire la struttura in una rete di analoghi strumenti della cooperazione e del mondo industriale o bancario. Si potrebbe, infine, sciogliere BUONITALIA, affidando all’ICE la promozione del patrimonio enogastronomico italiano all’estero anche mediante collaborazioni con strumenti più efficienti presenti in altri paesi europei (Sopexa, ecc.) e istituzioni interculturali che operano a livello planetario.
Arginare le resistenze sensibilizzando chi ha interesse all’innovazione
Non è facile realizzare cambiamenti siffatti perché dominano interessi personali, politici e corporativi e non c’è un’estesa consapevolezza di questi problemi. Il mondo agricolo si lamenta delle lungaggini burocratiche, ritenendo che il problema sia solo nelle procedure kafkiane e non nell’assetto organizzativo ottocentesco della pubblica amministrazione italiana, in cui prevale la forma e mai la sostanza, l’adempimento in sé e mai il risultato. Eppure, si tratterebbe di riforme che non costano nulla e sono del tutto realizzabili. Ad esse si oppongono coloro che hanno rendite di posizione da conservare o politici che pensano di continuare ad utilizzare le diverse strutture a fini di parte.
Occorrerebbe convincere i cittadini che potrebbero mangiare meglio e fruire di servizi più estesi e più rispondenti alle loro esigenze se l’agricoltura italiana si dotasse di strumenti e servizi pubblici più efficaci. Andrebbero sollecitate le imprese a prestare attenzione a questi temi per ottenere infrastrutture adeguate e servizi capaci di fare da volano allo sviluppo agricolo. Bisognerebbe poi coinvolgere tante persone meritevoli, interne ed esterne ai diversi enti, che potrebbero dare un forte impulso creativo e innovativo, ma spesso non riescono ad entrare in un sistema chiuso e clientelare, o vengono mal gestite e relegate in ruoli marginali con contratti precari.
Ci vorrebbe, infine, una forte volontà politica per sperimentare nuovi modelli organizzativi, con l’accortezza di accompagnare tali processi svolgendo un’azione di coinvolgimento delle persone meritevoli e interessate al cambiamento e promuovendo i percorsi e i relativi risultati tra i cittadini e le imprese.

Vincenzo Lo Scalzo
05 novembre 2011 ore 10:31Grazie Alfonso. Anche questa rappresentazione dello scenario mette in evidenza la "follia" più che la "genialità" dell'italiano, di tutte le regioni. La genialità ci è riconosciuta tuttavia e tantissimi sono i casi di "genialità italiana" messi e disponibili di mettersi al servizio di "nobilissime" missioni: da una folta schiera di Papi attraverso i secoli, alle cariche di "merito" raggiunte tra le istituzioni più prestigiose e complesse, non ultima la presidenza della BCE, la costruttiva ideazione di un'unione europea che dalla CECA si sta avvicinando ad un coacervo - per ora solo monetario ma sulla strada di convergere in una confederazione - europeo d'impatto importante per il pianeta, come ESA sta dimostrando di essere utile alla conoscenza universale ma soprattutto a quella del nostri stesso pianeta, attraverso la sua osservazione con gli strumenti più avanzati sviluppati dall'uomo.
Dai campi alla chimica e al microcosmo la genialità italiana ha lasciato tracce indelebili di "scoperte", un ritorno ai valori della terra, dell'agricoltura, delle risorse è vitale. Il caos "kafkiano" delle procedure di difesa erette contro pochi "ladri della natura" costa troppo denaro e fatica persa ai tanti operatori agricoli sani che vorrebbero che il loro protagonismo positivo giungesse fino alle tavole delle case. La rivoluzione silenziosa degli ordini monastici dal VI secolo ha fatto scuola e strada in tutto il pianeta fino al flagello di Napoleone che si è impadronito dei suoi frutti più maturi: sarebbe bello ricominciare!
La tua lettera rappresenta una seria riflessione: proviamo a sponsorizzarla personalmente. Forse potremmo trovare alleati in alcune istituzioni del Pianeta, ma prima andrebbe posta nella linea strategica del nostro paese, da dentro o da fuori!