Economia

Per una riforma “vera” della Pac. La proposta di socialisti e democratici europei

E’ stata la mancanza di riforme negli anni ‘80 a incancrenire la situazione sociale ed economica delle campagne europee. Gli aggiustamenti finora prodotti hanno eliminato i surplus produttivi e le distorsioni più plateali procurate ai mercati internazionali ma non sono mai riusciti a ridurre le disparità. L'analisi di Alfonso Pascale

05 giugno 2010 | Alfonso Pascale



Il Gruppo dell’Alleanza Progressista di Socialisti e Democratici al Parlamento Europeo ha recentemente approvato un documento molto coraggioso e fortemente innovativo sul futuro della PAC dopo il 2013. La presa di posizione contiene giudizi molto netti su due aspetti cruciali: il primo riguarda le cause della crisi che, a partire dagli anni Ottanta, ha investito l’agricoltura europea, dopo la fase della sua fioritura ed espansione indotta dalla nascita della Comunità europea e dalla PAC; il secondo è riferito alla fase delle riforme che si sono varate dal 1992 fino ad oggi.

Viene ricordato che la crisi dell’agricoltura europea si manifestò negli anni Ottanta con l’accumulo di enormi stock di surplus nei settori dei cereali, della carne bovina e dei prodotti caseari, con la conseguente esplosione della spesa agricola, oltre che con le distorsioni dei mercati internazionali causate dai sussidi alle esportazioni. Una crisi indotta, dunque, dalla PAC medesima e dalla mancanza di coraggio nel riformare profondamente obiettivi e strumenti di una politica che aveva dato risultati sorprendenti nel ventennio precedente e che ora stava distruggendo le basi stesse dell’economia agricola, il suo capitale sociale e le risorse ambientali, accentuando oltre misura gli squilibri e le ingiustizie tra le strutture e tra i territori.

Ci vollero dieci anni per avviare il processo di revisione della PAC e, dalla riforma Mac Sharry del 1992, è stato necessario un percorso durato altri venti anni sia per eliminare i principali squilibri di produzione che per risolvere in larga parte le tensioni tra l'Ue e i suoi partner commerciali. Tuttavia, la crisi dell’agricoltura europea non solo perdura ma si è ulteriormente aggravata come ci segnalano il calo progressivo dei redditi e dell’occupazione nel settore agricolo e il continuo spopolamento delle aree rurali più fragili.


L’impronta conservatrice delle riforme precedenti
I socialisti e i democratici europei affermano senza mezzi termini che è stata la mancanza di riforme negli anni Ottanta a incancrenire la situazione sociale ed economica delle campagne europee e che gli aggiustamenti finora prodotti hanno sì eliminato i surplus produttivi e le distorsioni più plateali procurate ai mercati internazionali ma non sono mai riusciti a ridurre le disparità nel settore agricolo ed a frenare l’esodo dalle aree rurali più in difficoltà. Per effetto dei pagamenti diretti calcolati sulla base dei raccolti precedenti all’ultima riforma, ancora oggi le aziende più grandi continuano a ricevere la maggior parte dei sostegni e il ricambio generazionale è pressappoco bloccato.

Il principio di coesione, che è un principio fondamentale dell’Ue introdotto nei Trattati con l’Atto Unico del 1986, resta ancora del tutto disatteso dalla PAC: l’80 % del bilancio va al 20 % degli agricoltori. In venti anni di continui aggiustamenti e con eccessiva lentezza si sono potuti eliminare gli squilibri produttivi e i protezionismi ma non si è per nulla scardinata l’ingiusta allocazione delle risorse pubbliche tra i beneficiari degli aiuti diretti. La PAC si presenta ancora in modo del tutto incoerente con l’altra grande politica europea, quella di coesione. Inoltre, le preoccupazioni per l’emergere delle grandi sfide del nostro tempo (cambiamento climatico, gestione dell'acqua, energia rinnovabile, biodiversità, erosione del suolo, ecc.) sono state prese in considerazione in modo del tutto marginale in occasione dell’ultima messa a punto della PAC.

In sostanza, il principale gruppo politico di centrosinistra del Parlamento Europeo sostiene che la PAC, così com’è, non gode del necessario consenso da parte dei cittadini europei perché si presenta come una politica che non avvantaggia tutta la società ma solo una parte molto limitata di questa; è ingiusta perché alloca i fondi europei in modo squilibrato tra gli Stati membri, tra le regioni e tra gli agricoltori; è inefficiente perché agisce senza alcuna coerenza con le altre politiche europee. Va, pertanto, ripensata profondamente nei suoi obiettivi e nei suoi strumenti, superando l’approccio che ha caratterizzato le riforme dal 1992 ad oggi “un passo alla volta mantenendo la filosofia originale” e imprimendo un effettivo cambio di paradigma per affrontare le nuove sfide alimentari, climatiche ed energetiche.

Nel documento dei socialisti e dei democratici europei si osserva che “tra le diverse divisioni politiche che hanno sempre chiaramente mostrato le differenze tra progressisti e conservatori, ce n'è una che persiste: i primi anticipano e guidano i processi di riforma ambiziosi, mentre i secondi si occupano solo delle questioni quando sono costretti a farlo nell'emergere di crisi e di fattori esterni”. E si sostiene senza mezzi termini che “la riforma della PAC negli ultimi 15 anni ha generalmente seguito questa seconda strada”. E’ dunque evidente che “in un contesto interno e internazionale radicalmente diverso dagli anni Cinquanta e Sessanta questo approccio troppo timido e conservatore è per molti aspetti la ragione principale della percezione negativa della PAC da parte dell’opinione pubblica”. La conclusione è che occorre “riaffermare l'importanza del ruolo degli agricoltori europei e la necessità di una forte politica agricola comune per il futuro, capace di affrontare le nuove sfide, proponendo un nuovo progetto ambizioso e trasparente”.


I punti cardine della proposta di riforma
La proposta avanzata dai socialisti e dai democratici europei si basa sull’idea di eliminare i due attuali pilastri (Pagamento Unico Aziendale e Sviluppo Rurale) e di edificare un Unico Quadro Strutturato di Regole Europee volto a finanziare in modo trasparente e con procedure semplificate la produzione di beni pubblici. Nello stesso tempo, le misure di Sviluppo Rurale attualmente presenti nel secondo pilastro e che non possono essere trasferite al nuovo sistema di pagamenti diretti – come gli aiuti per i giovani agricoltori, formazione, pre-pensionamenti, investimenti nelle aziende agricole e investimenti mirati alla diversificazione delle attività economiche nelle aree rurali – dovrebbero più opportunamente trovare posto nella politica regionale e di coesione, da ripensare come politica che deve agire anche per la competitività e l’innovazione del settore agricolo e per lo sviluppo dei territori rurali. In sintesi, il principale gruppo europeo di centrosinistra propone una riforma articolata in tre punti.

1) Un sistema di pagamento contrattuale integrato su base volontaria
Gli aiuti agli agricoltori dovrebbero essere erogati in base ad un modello che potrebbe articolarsi su tre livelli:

a) pagamento di base da erogare per ettaro di terra coltivata a certe condizioni. Esso sarebbe concesso a tutte le strutture che accettino di firmare un contratto di gestione e conservazione per l'area agricola, con un tetto massimo da definire;

b) pagamento legato agli ostacoli naturali per assicurare un sostegno più alto ai territori rurali più fragili;

c) pagamento sulla base di contratti speciali che coprano alcuni servizi ambientali.


2) Un sistema di regole per la gestione dei rischi e delle crisi
Per gestire gli eventi imprevisti che tradizionalmente devono affrontare gli agricoltori, in particolare la volatilità dei prezzi dei prodotti agricoli, le condizioni climatiche estreme e la diffusione di malattie animali, dovrebbe essere messo a punto un sistema di regole che garantisca sicurezza agli agricoltori.
C'è un ampia gamma di strumenti che potrebbero essere utilizzati a questo scopo: prezzi di intervento, immagazzinamento, assicurazioni, aiuti alimentari per le fasce più svantaggiate della popolazione europea, creazione di un fondo pubblico/privato di stabilizzazione del mercato.


3) Un sistema di aiuti per le misure strutturali
Tutte le misure attualmente presenti nel secondo pilastro e che non possono essere trasferite al nuovo sistema di pagamento contrattuale integrato dovrebbero essere garantite in maniera più coerente con la politica regionale e di coesione, trasformando lo sviluppo rurale in una vera e propria politica di sviluppo territoriale e non già in una politica agricola camuffata che non soddisfa né le esigenze di ammodernamento delle aziende agricole né i bisogni dei territori rurali.


Alcune criticità della proposta
E’ indubbio che la proposta appare in forte discontinuità rispetto allo “status quo”, in primo luogo perché esclude dal sistema del pagamento integrato quei soggetti che non producono beni pubblici; inoltre perché sottrae allo sviluppo rurale il carattere di politica settoriale per ricondurla alle altre politiche di sviluppo territoriale, mediante la definizione di un quadro giuridico e di strumenti operativi uniformi.
Per renderla più adeguata a fronteggiare le nuove sfide occorrerebbero due integrazioni:

a) estendere il concetto di “bene comune” anche ai “beni relazionali” poiché l’agricoltura europea è in grado di produrre non solo beni pubblici come la manutenzione del territorio, la tutela della biodiversità, la protezione della fertilità dei suoli e il risparmio idrico, ma anche beni relazionali come le pratiche di mutuo aiuto, la reciprocità non strumentale, insomma tutte quelle utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali e al libero sviluppo della persona, nonché alla salvaguardia e all’incremento del capitale fisico e civile su cui si reggono le comunità locali;

b) affermare in modo esplicito che il nuovo sistema di pagamento integrato riguarderà tutte le unità produttive agricole, comprese quelle “part-time” che sono maggioritarie e preziose soprattutto nelle aree rurali più colpite da fenomeni di disgregazione sociale o a rischio di spopolamento e nelle aree periurbane a rischio di cementificazione. Gli aiuti diretti dovrebbero essere erogati esclusivamente ai produttori multifunzionali, che dimostrino cioè di produrre effettivamente beni comuni e relazionali. E il livello dell’aiuto non dovrebbe essere più parametrato alla superficie posseduta ma all’entità dei beni comuni e relazionali prodotti, da misurare mediante indici automatici da elaborare appositamente. Tra gli indicatori ci dovrà essere ovviamente anche il rispetto delle norme contrattuali, qualora nelle unità produttive sia impiegata manodopera dipendente.


E infine una considerazione politica più complessiva
Per la prima volta viene presentata da un gruppo politico una proposta che affronta la riforma della PAC non più dall’ottica esclusiva degli agricoltori ma da quella degli interessi generali della società. Tutti gli aspetti della riforma che si vuole realizzare, anche quelli più squisitamente tecnici, interagiscono fortemente con altre politiche (ambientali, energetiche, sociali, territoriali, ecc.).
Se i progressisti europei intendono davvero contribuire a riformare la PAC dovrebbero evitare di lasciare il tema ai soliti addetti ai lavori e agli esperti di politica agricola, ma dovrebbero affrontarlo in modo intersettoriale e interdisciplinare aprendo il dibattito a tutti i settori della società e ancorandolo strettamente a quello più generale delle politiche europee dopo il 2013.





LEGGI ANCHE
link esterno