Economia

La Pac che vogliamo. Ma cosa succederà dopo il 2013?

L’attuale programmazione delle politiche comuni volge al termine ed è giunto il tempo di riflettere sul futuro. L'approfondita analisi di Alfonso Pascale, con la provocazione di un gruppo di economisti agrari, la risposta del Copa-Cogeca, la posizione di Paolo De Castro, e altro, molto altro ancora

16 gennaio 2010 | Alfonso Pascale



Quest’anno si avvierà il negoziato sulle scelte strategiche e di bilancio dell’Unione Europea. E’ alle nostre spalle la fase di stasi del processo di costruzione dell’Europa, che si è conclusa con l’entrata in vigore, il primo dicembre 2009, del Trattato di Lisbona e il rinnovo della Commissione. E adesso i riflettori sono puntati sul 2013, quando volgerà al termine l’attuale programmazione delle politiche comuni e partirà quella successiva. La fase che si apre potrà essere un’occasione importante per costruire un’Unione Europea più efficace, in grado di assicurarsi e conservare il sostegno dei suoi cittadini e che ponga al centro le persone e le comunità.

E’ auspicabile che il dibattito sulle priorità dell’Unione non si limiti solo agli aspetti finanziari ma investa direttamente anche i contenuti delle politiche, a partire da una nuova Politica Agricola Comune (PAC) in linea con le domande che i cittadini europei rivolgono oggi all’agricoltura e ai territori rurali, che sono giacimenti di valori sociali, culturali e ambientali irrinunciabili. Se si vuole che l’Europa faccia scelte oculate, è necessario che la discussione sul futuro della PAC esca dai circoli agricoli e coinvolga l’opinione pubblica.

La “provocazione” di un gruppo di economisti agrari europei
Un contributo ad un dibattito di più ampio respiro è stato recentemente fornito da un gruppo di economisti agrari europei, che ha diffuso la dichiarazione “Una Politica Agricola Comune per la produzione di beni pubblici europei”. Si tratta di una presa di posizione per un verso provocatoria, ma per l’altro chiara e coerente nella sua impostazione, che smuove finalmente le acque in un dibattito tutto interno al settore agricolo e segnato da un diffuso atteggiamento conservatore.

Nel suddetto documento si riconosce che il passaggio - realizzato con le riforme succedutesi dal 1992 in poi - dai meccanismi di sostegno dei prezzi al Pagamento Unico Aziendale (PUA) diretto agli agricoltori e disaccoppiato dalla produzione ha ridotto gli effetti negativi della PAC. Oggi vi sono minori distorsioni nell’agricoltura europea ed in quella mondiale e gli agricoltori poveri dei paesi in via di sviluppo subiscono minori danni dalle nostre politiche protezionistiche. Ma si aggiunge anche che il PUA determina benefici fortemente ineguali tra i Paesi membri e tra gli agricoltori, senza peraltro conseguire nessun obiettivo chiaro in termini di distribuzione del reddito, sviluppo rurale o protezione dell’ambiente. Inoltre, gli strumenti di sostegno dei prezzi della vecchia PAC, che ancora sopravvivono, continuano a costituire un problema per i partner commerciali dell’UE, indebolendo la posizione negoziale dell’UE nel suo tentativo di smantellare le politiche eccessivamente protezionistiche su scala globale e di assicurare una conclusione positiva del Doha round.

Il gruppo di economisti agrari propone, dunque, che l’Europa continui ad avere una politica agricola ma a condizione che sia finalizzata al raggiungimento di obiettivi più generali e, in particolare, solo nei casi in cui gli effetti dell’intervento pubblico comunitario si estendano al di là dei confini nazionali. In tutte le altre situazioni le politiche dovrebbero essere coerenti con il principio della sussidiarietà.

Nel passare poi in rassegna gli obiettivi della PAC, gli estensori della presa di posizione mettono in discussione gran parte di quelli perseguiti finora. Si afferma, infatti, che il modo migliore di realizzare l’obiettivo dell’efficienza economica e della competitività del settore agricolo non è attraverso l’intervento pubblico ma mediante mercati ben funzionanti. Inoltre, la sicurezza alimentare dell’UE non sarebbe oggi in discussione perché ci troviamo in un’area del mondo che ha il potere d’acquisto necessario ad approvvigionarsi sui mercati mondiali, anche quando i prezzi mondiali sono alti. E il modo migliore per aiutare le famiglie povere, quando sono colpite durante periodi di prezzi alti, è il ricorso alle politiche di welfare e non alle sovvenzioni all’agricoltura. Per quanto riguarda infine l’obiettivo di una più equa distribuzione dei redditi agricoli, lo strumento più efficace per affrontare il problema delle disparità ancora esistenti in diverse regioni rurali non sarebbero i sussidi all’agricoltura ma forme dirette di intervento sociale. In effetti, se il sostegno pubblico resta legato alla produzione agricola o alla proprietà della terra, com’è attualmente, agricoltori e proprietari terrieri non poveri raccoglieranno gran parte degli aiuti, mentre i poveri saranno penalizzati. Gli aiuti pubblici derivanti da altre politiche dovrebbero, invece, essere mirati verso le famiglie con un reddito basso, indipendentemente dal settore in cui i loro membri lavorano.

Nel documento si sostiene, infine, che si potrebbe prendere in considerazione solo l’obiettivo di accrescere la capacità degli agricoltori di produrre beni pubblici. Tuttavia, non tutti i beni pubblici giustificherebbero un intervento da parte dell’UE, ma solo quelli che hanno valenza globale, cioè arrecano benefici oltre i confini nazionali. In sostanza, a parere del gruppo europeo di economisti agrari, la PAC del futuro dovrebbe promuovere esclusivamente beni pubblici.

La risposta del Copa-Cogeca
A questa presa di posizione si è immediatamente contrapposto il Copa-Cogeca, che rappresenta le organizzazioni professionali e cooperative dell’agricoltura a livello europeo, chiedendo di confermare la PAC così com’è. La tesi di queste organizzazioni è che i prodotti alimentari costituirebbero uno strumento strategico per il controllo del pianeta e che, pertanto, sarebbe inopportuno rinunciare al PUA e indebolire ulteriormente gli strumenti di gestione del mercato, poiché gli agricoltori avrebbero bisogno di un quadro stabile per pianificare in anticipo i loro investimenti e assicurare un approvvigionamento alimentare costante.

La posizione di Paolo De Castro
Nel dibattito è intervenuto anche il presidente della Commissione Agricoltura del Parlamento Europeo, Paolo De Castro, che ha riconosciuto l’esigenza di un aggiornamento della PAC, ma ha manifestato sostanzialmente la propria contrarietà alle tesi del gruppo europeo di economisti agrari. Il motivo di fondo di tale avversione è che gli shock di prezzo come quelli registrati in anni recenti, da un parte, minacciano la capacità di accesso al cibo della maggior parte della popolazione mondiale; dall’altra, rischiano di generare, specialmente in economie agricole come quelle in Europa, un processo diffuso di chiusura di aziende agricole, che è difficile da invertire.

E questa situazione, senza una PAC che conservi l’attuale impianto, avrebbe come effetto l’impoverimento del ruolo sociale ed ambientale dell’agricoltura. Da qui la proposta del presidente della Comagri del Parlamento Europeo di continuare a ridurre progressivamente gli interventi di protezione del mercato e di sostegno ai prezzi, ma nello stesso di garantire la possibilità di attivare misure tempestive e appropriate per proteggere gli agricoltori dagli shock di produzione e di prezzo. Si tratterebbe per De Castro di confermare il PUA nella sua attuale configurazione, legandolo più strettamente al comportamento degli agricoltori e ai servizi pubblici da essi creati e non più al valore storico dei premi. Infine, De Castro rigetta l’ipotesi della parziale rinazionalizzazione della PAC, contenuta nella presa di posizione degli economisti agrari, poiché tale prospettiva, pur in presenza di intense forme di controllo e regolamentazione, potrebbe produrre un livello di distorsione tale da penalizzare alcuni paesi e da creare una disparità nell’intensità di intervento.

In sostanza, l’unico punto su cui tutti paiono concordare è la possibilità di promuovere e sostenere, nell’ambito della PAC del futuro, l’accesso degli agricoltori ai moderni strumenti di gestione del rischio nel caso di shock di prezzo.

E’ innegabile l’esigenza di formulare nuovi obiettivi per la Pac
La mia opinione è che il gruppo di economisti agrari ha perfettamente ragione nel ritenere che la sicurezza alimentare non costituisca un problema per l’Europa e che i suoi cittadini siano in media abbastanza ricchi per approvvigionarsi sui mercati mondiali, anche quando i prezzi mondiali sono alti. Questo dato di fatto già si riscontrava agli inizi degli anni Ottanta ed ha permesso all’Europa di procedere alla progressiva riduzione della protezione dei mercati e del sostegno dei prezzi per concorrere a far fronte alle distorsioni dei mercati mondiali. Da questa angolatura, la situazione non si è modificata nell’ultimo periodo e, dunque, non si giustifica il mantenimento di aiuti distribuiti a pioggia agli agricoltori finalizzati a garantirci come europei un livello elevato di autoapprovvigionamento alimentare. Sono, invece, aumentati e sempre più aumenteranno gli shock di prezzo; e l’Unione europea non potrà, dunque, ignorare i problemi reali che prezzi bassi determinano. Occorrerebbe non solo promuovere nuovi strumenti di gestione del rischio, come tutti concordano di introdurre nella prossima riforma della PAC, ma prevedere anche reti di sicurezza contro la contrazione dei redditi degli agricoltori, per fronteggiare cadute dei prezzi mondiali di natura eccezionale. Ritenere, tuttavia, che questa esigenza si possa soddisfare conservando il PUA è come voler curare il mal di denti, che fortunatamente si verifica solo ogni tanto, con dosi quotidiane di analgesico da assumere per tutta la vita con effetti collaterali perniciosi e dispendiosi per sé e per la collettività. Questo aspetto relativo all’efficacia degli strumenti per fronteggiare le cadute dei prezzi, che si verificano in via eccezionale, potrebbe essere ulteriormente approfondito dal gruppo di economisti agrari per offrire ipotesi di interventi più particolareggiate, dal momento che essi medesimi riconoscono l’esistenza di questo problema.

Per quanto riguarda i due obiettivi dell’efficienza economica e della competitività delle imprese, per un verso, e della redistribuzione del reddito tra gli agricoltori e i territori, per l’altro, anch’io ritengo che non si debbano perseguire più in una logica settoriale ma nell’ambito di politiche di sviluppo e coesione che affrontino orizzontalmente tali problemi nei diversi territori. Del resto, l’esperienza della PAC come politica di welfare in senso redistributivo è stata del tutto deludente in questi decenni. Sono convinto che lo sviluppo rurale non debba più essere una politica per l’agricoltura ma vada integrato effettivamente nelle altre politiche territoriali unificando i relativi fondi, che interverrebbero così verso tutte le strutture produttive comprese quelle agricole, e rafforzando la parte relativa agli interventi sociali da dirottare anche verso i territori rurali. E’ nell’insieme di queste politiche che si dovranno garantire priorità e maggiori risorse per i giovani e per le aree più svantaggiate dell’Unione.

D’altronde, l’esperienza di questi anni dimostra che le politiche di sviluppo e coesione richiedono apparati burocratico-amministrativi disponibili ad assolvere ruoli proattivi, e non solo di controllo, e che l’aver tenuto insieme le competenze nelle materie agricoltura e sviluppo rurale non solo non ha affatto garantito un approccio più proattivo da parte delle strutture pubbliche, ma ha contribuito anche alla separatezza degli specialismi e dei settori.

Resta l’obiettivo della promozione di beni pubblici prodotti dall’agricoltura, come grande opzione di una PAC più efficace e più gradita alla maggioranza dei cittadini e ai soggetti più innovativi che operano in agricoltura. Anch’io sono convinto che questa impostazione sia la più praticabile per ottenere una riforma rispondente alle necessità dell’Europa a patto, però, che si approfondisca come estendere l’approccio ai beni pubblici a tutti quei beni e servizi che si legano, in modo inestricabile, sia alle nuove sfide ambientali sia al bisogno di preservare le risorse umane, il capitale sociale e il senso di comunità dell’agricoltura come valori indispensabili per umanizzare la società.

E’ noto che i beni pubblici (common goods) sono beni o servizi che hanno un valore per la collettività ma necessitano di essere promossi dallo Stato per correggere i fallimenti del mercato. Il gruppo di economisti agrari include tra i servizi pubblici richiesti dai cittadini e forniti dagli agricoltori la lotta contro il cambiamento climatico, la conservazione della biodiversità, la protezione della fertilità dei suoli, la gestione delle risorse idriche, la conservazione del paesaggio, la salubrità degli alimenti, la salute degli animali e delle piante e indica tra questi anche, genericamente, lo sviluppo rurale. I suddetti beni e servizi rientrerebbero tra quelli che la PAC dovrebbe incentivare.

Ritematizzare l’approccio ai beni pubblici
Invero, la multifunzionalità dell’agricoltura non riguarda soltanto la produzione di beni di tipo ambientale legati ai fallimenti del mercato, ma anche gli output multipli dei processi agro-zootecnici legati ad una diversa visione dei percorsi di creazione di benessere collettivo come quelli riscontrabili nell’agricoltura sociale. Siamo in questi casi in presenza di originali modelli produttivi, in cui la produzione di un bene alimentare e la produzione di un servizio sociale sono un tutt’uno – l’una cosa non si realizza senza l’altra – né più né meno di quanto avviene nel caso di una pratica produttiva agricola che produce conservazione di biodiversità. Siamo nell’ambito di costruzioni sociali in cui si sperimenta l’idea di legare la produzione di ricchezza economica e la produzione di ricchezza sociale, rompendo gli steccati tra specialismi e settori e rimescolando la separazione che caratterizza gli Stati moderni tra produzione privata della ricchezza economica e redistribuzione pubblica.

Si tratta, dunque, di concepire i beni pubblici in un’ottica molto più ampia di quella in cui solitamente essi vengono tematizzati nel dibattito di politica economica, considerando il complesso dei valori sociali e ambientali prodotti dall’agricoltura.

La PAC come contributo alla costruzione di un’Europa delle persone e delle comunità
La PAC del futuro si potrebbe allora impiantare davvero - come asserito nella dichiarazione del gruppo di economisti agrari - su di un unico pilastro, eliminando, da una parte, il PUA ( attuale primo pilastro) e trasferendo, dall’altra, gli interventi di sviluppo rurale (quegli aspetti dell’attuale secondo pilastro non riconducibili alla promozione di beni pubblici) nelle altre politiche di sviluppo e coesione. Si tratta, in sostanza, di delineare meccanismi snelli ed efficaci volti ad incentivare attività agricole che producono beni e servizi di utilità pubblica nell’ambito sia della qualità alimentare che degli aspetti sociali e ambientali, salvaguardando il pluralismo dei soggetti agricoli e delle tipologie produttive, e di prevedere interventi che promuovono la gestione del rischio e proteggono gli agricoltori quando si verificano cadute dei prezzi.

Nello stesso tempo, andrebbe offerta la disponibilità, nell’ambito del Doha round, ad una progressiva riduzione dei sussidi all’esportazione e di alcune tariffe all’importazione particolarmente elevate per contribuire a sbloccare il negoziato e pervenire rapidamente ad un accordo, che riduca ulteriormente i protezionismi delle politiche agricole e liberalizzi il commercio mondiale dei prodotti agricoli.

Una riforma siffatta assicurerebbe alla PAC un consenso molto ampio dei cittadini europei e potrebbe più facilmente contribuire a sventare il rischio del ricorso ad una sua parziale rinazionalizzazione per spostare risorse finanziarie su altre politiche. Qui c’è un punto di netto dissenso nei confronti della nota degli economisti agrari che mi sento di condividere con De Castro. In presenza di una PAC che individui correttamente e promuova beni e servizi sociali, ambientali e riferiti alla qualità alimentare, richiesti dai cittadini europei e prodotti effettivamente dall’agricoltura, è del tutto ragionevole che l’incentivazione della loro produzione sia assicurata totalmente dal bilancio dell’Unione. Perché le istituzioni europee dovrebbero rinunciare ad una politica che promuove beni per tutti e soprattutto contribuisce alla costruzione di un’Europa che abbia al centro le persone e le comunità?





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