Economia

E PAC SIA! LA POLITICA AGRICOLA COMUNE SI E' RIVELATA UN FORMIDABILE ELEMENTO DI UNITA'. NON E' SOLO GESTIONE DEI MERCATI, MA ANCHE MODELLO DI WELFARE

In occasione del cinquantennale dei Trattati di Roma, presentiamo una lucida e dettagliata analisi di Alfonso Pascale: "Negli ultimi trent'anni l'agricoltura ha costituito il campo di battaglia tra riformisti e conservatori. La partita è tuttora aperta. Se prevarranno i primi, com'è auspicabile, l'agricoltura tornerà ad essere fattore di coesione nel processo di integrazione"

24 marzo 2007 | Alfonso Pascale

A cinquant'anni dalla firma dei Trattati di Roma è bene ricordare il ruolo cruciale che l'agricoltura ha svolto nella costruzione europea. I protocolli
con cui vennero create la Comunità Economica Europea (Cee) e la Comunità
Europea per l'Energia Atomica (Euratom) sarebbero passati alla storia come due dei tanti accordi internazionali se ad essi non fosse seguita nel 1958 la
Conferenza di Stresa, che definì ed avviò la Politica Agricola Comune (Pac), rimasta per un lungo periodo l'unica vera politica europea.

Un formidabile elemento di coesione
La Pac ha garantito all'Europa la sicurezza degli approvvigionamenti tenendola al riparo da un eventuale ricatto alimentare. In tal senso ha agito come un formidabile elemento di coesione. Quando negli anni Settanta l'obiettivo della sicurezza degli alimenti è stato raggiunto a seguito di rigorose misure protezionistiche e di sostegno dei prezzi, l'agricoltura è diventata terreno di conflitto tra due opposti schieramenti: da una parte, i sostenitori di una profonda riforma della Pac volta a trasformarla in una politica di sviluppo delle aree rurali e, dall'altra, i difensori dello status quo insofferenti di ogni innovazione che potesse rendere gradevole tale politica ai contribuenti e ai consumatori europei.

Una partita tuttora aperta
Grazie al suo respiro territoriale, la politica di sviluppo rurale si presenta come una politica chiaramente allineata agli ambiziosi obiettivi di Lisbona e Götemborg, mentre la vecchia Pac è diventata col tempo fonte di squilibri e di
sprechi. Negli ultimi trenta anni l'agricoltura ha dunque costituito il campo di battaglia tra riformisti e conservatori. La partita è tuttora aperta; e se prevarranno i primi, com'è auspicabile, l'agricoltura tornerà ad essere fattore di coesione nel processo di integrazione europea.

Una politica orientata al sostegno dei mercati
Gli aspetti agricoli del Trattato di Roma fanno esplicito riferimento al ruolo - assegnato al settore primario - di garantire il raggiungimento dell'obiettivo della sicurezza alimentare. A quell'epoca, tale espressione era intesa in un'accezione quantitativa, come antidoto alla fame e alla sottonutrizione e,
dunque, come strumento di autonomia politica. La Pac era, in sostanza, considerata come un mezzo utile all'Europa per prevenire il rischio di essere
ricattata dal punto di vista alimentare. E fu principalmente per questa ragione
che gli stati membri decisero di dotarsi di una comune politica orientata al sostegno dei mercati agricoli.

Un ruolo redistributivo
Il travaso di un ammontare enorme di risorse dai contribuenti e dai consumatori a beneficio del settore primario assumeva, peraltro, un ruolo redistributivo non irrilevante: la ricchezza prodotta a seguito della crescita economica veniva con la Pac in parte rifusa a vantaggio dei soggetti (gli agricoltori) e dei territori (le aree rurali) più penalizzati da una strategia di sviluppo concentrata sulla grande industria e sulla grande città.

Un modello di welfare
Se solo si considera che la popolazione agricola, negli anni '50 del secolo scorso, rappresentava nell'insieme dei sei paesi, una percentuale rilevante
della popolazione attiva, con punte di circa il 38% in alcune zone dell'Italia,
ci si rende ben conto di come la Pac abbia costituito non solo una politica dei
mercati, ma anche un particolare modello di welfare, e di come quest'ultimo
abbia influenzato enormemente le stesse forme della rappresentanza politica e sociale.

Nuove certezze e maggiore fiducia
Al di là degli effetti squilibrati che questa politica produceva tra i diversi paesi, settori e tipologie aziendali, è fuor di dubbio che essa garantiva agli agricoltori maggiore sicurezza di poter collocare i propri prodotti e quindi
incontrava il loro favore. Da millenni, invero, la produzione agricola era sottoposta alle imprevedibilità del clima e ai capricci del mercato. Con la Pac si ebbe finalmente la fissazione dei prezzi e furono previsti i compensi se
questi fossero calati. Tali nuove certezze erano motivo di relativa stabilità
per le aziende agricole e in più casi incoraggiavano gli investimenti. Vi fu,
pertanto, una impetuosa crescita produttiva indotta proprio da questa politica.

Eccedenze e squilibri
Ma l'incremento della produzione agricola si trasformò ben presto in accumulo di eccedenze nei settori più protetti, come i cereali e i derivati del latte, e in
aumento incontrollato della spesa comunitaria. E tale situazione diventò un
impedimento alla modernizzazione del settore perché le garanzie di mercato
infiacchivano lo spirito imprenditoriale. Inoltre, gli squilibri si dilatarono
ulteriormente perché le risorse erogate, essendo proporzionali alle quantità
prodotte, assicuravano i maggiori benefici alle aziende più grandi e a quelle
che producevano in abbondanza.

Una politica di contenimento
Agli inizi degli anni '80 si impose pertanto all'attenzione generale l'esigenza
di correggere la Pac. L'obiettivo immediato diventò il contenimento della spesa agricola. Ma per lasciare invariati i vecchi strumenti, come il mercato protetto e il sostegno dei prezzi, e intatti i privilegi e le rendite da questi
generati, si pervenne ad una politica di contenimento dell'offerta mediante una serie di misure: il congelamento dei prezzi agricoli istituzionali, gli
stabilizzatori finanziari e i vincoli alla produzione. Fu nel 1984 che si
imposero le quote latte, ossia un sistema di soglie massime di produzione
oltrepassate le quali gli allevatori incorrono in pesanti sanzioni.

Misure tampone
Le contraddizioni e le disfunzioni a questo punto diventarono insostenibili, ma
si continuò ad introdurre misure tampone per non mettere in discussione
l'impalcatura generale della Pac e gli equilibri che si erano realizzati in
termini di distribuzione delle risorse tra paesi, settori e tipologie di
aziende.

Ingiustizie e conflittualità
Si erano in realtà esaurite definitivamente le ragioni politiche, economiche e
sociali su cui poggiava la Pac ma non se ne voleva prendere atto. Uno degli
obiettivi principali assegnati al settore primario dal Trattato di Roma, come
la sicurezza degli approvvigionamenti alimentari, era stato da tempo raggiunto. Ma venuta meno quell'esigenza, la stessa funzione redistributiva, esercitata fino a quel momento dalla Pac, si rivelava adesso foriera di ingiustizie insanabili, sprechi senza argini e conflittualità latenti. L'attenzione ai problemi delle popolazioni rurali si sarebbe potuta ottenere solo se l'obiettivo di ridurre le disparità di reddito e di sviluppo territoriale si fosse integrato con altre finalità dell'unificazione europea, venute nel frattempo in auge, e che si riferivano a parole chiave come convergenza, coesione, sostenibilità, solidarietà, occupazione, ambiente.

Due anime ispiratrici
La contraddizione tra gli obiettivi generali della Comunità Europea e il
sovradimensionamento della maggiore politica settoriale da essa attuata, la
Pac, è diventata sempre più palese. L'espressione più evidente di questa
incongruenza è nella quota di spesa che la Pac ancora conserva nel bilancio dell'UE (43% circa).
Per trovare una soluzione a questo problema si sono nel tempo scontrate e
continuano a contrapporsi due "anime ispiratrici": quella riformista, che ha
tentato e cerca tuttora di fare i conti con il nuovo contesto globale e di
dotarsi di una visione strategica di medio periodo; e quella conservatrice, che
persegue invece il mantenimento dello status quo e a cui fanno capo i difensori delle rendite di posizione e dei privilegi acquisiti con la vecchia Pac.

Le ragioni riformiste
Le ragioni riformiste sono poggiate sul presupposto che i nuovi obiettivi
comunitari (convergenza, coesione, solidarietà, sostenibilità ambientale) hanno bisogno di ingenti risorse per essere perseguiti, ma che questi mezzi finanziari non possono essere richiesti ex-novo al contribuente. L'apertura dei mercati impone, infatti, all'azione pubblica di ridurre il prelievo fiscale con
l'obiettivo di assicurare capacità competitive ai sistemi produttivi.

L'agricoltura al pari di altri settori
Pertanto, nell'impostazione riformista l'opportunità offerta dalla preesistenza
della Pac e del suo budget va colta per finalizzare le risorse comunitarie sui
due principali assi strategici dell'Ue (occupazione e ambiente) e accompagnare gli agricoltori, che percepiscono i sostegni della Pac, da un orientamento basato su produzioni e tecniche ad alto livello di standardizzazione verso un modello rivolto invece alla qualità.
In questa visione strategica si è di fatto immaginata una transizione dolce in grado di non penalizzare l'agricoltura europea, orientando i sostegni verso i comportamenti e i progetti degli agricoltori e considerando quest'ultimi non un mondo a parte, ma veri e propri imprenditori non più diversi dai loro pari degli altri settori.

L'ottica conservatrice
L'anima conservatrice ha puntato, d'altro canto, a salvaguardare quanto più
possibile le risorse finanziarie in un ambito settoriale e di premiare non già
la capacità progettuale e i comportamenti degli agricoltori, ma il loro status
distinto dalla condizione di altri soggetti economici, sottratto a vincoli e
controlli esistenti in altri comparti produttivi.
Dall'ottica conservatrice, la riforma della Pac non è dunque vissuta come un
obiettivo, ma come un escamotage per renderla più accettabile sul piano
politico e sociale ad argine dei vecchi privilegi.

Uno scontro dal canovaccio ripetitivo
Se si prendono in esame le diverse tappe della riforma della Pac, che si sono
succedute negli ultimi venti anni, lo scontro tra l'anima riformista e quella
conservatrice ha seguito un canovaccio alquanto ripetitivo. Nella fase della
riflessione sulla necessità di una riforma e sulle strategie da perseguire
prevale generalmente l'approccio riformista.
Nel corso della formulazione delle norme attuative e delle procedure di implementazione prende, invece, il sopravvento quella conservatrice.

Una trasfusione di risorse
Con il disaccoppiamento degli aiuti e il pagamento unico, il fronte riformista
ha conseguito una vittoria significativa. Ma è un avanzamento accompagnato da un grave limite: il rinvio a dopo il 2013 di una trasfusione di risorse, nell'ambito del budget agricolo, per realizzare una effettiva politica di sviluppo rurale.

Il Piano strategico nazionale
Sul piano interno le cose non vanno per il meglio. Per la nuova programmazione dello sviluppo rurale, il Piano Strategico Nazionale (Psn) definito dalla Conferenza Stato-Regioni non solo appare generico nell'individuazione degli obiettivi e degli strumenti di intervento, ma alloca le risorse in base alla stessa ripartizione adottata nella precedente programmazione 2000-2006, privilegiando un approccio estremamente settoriale e meccanismi tradizionali di trasferimento alle imprese agricole.

I programmi di sviluppo rurale
Le Regioni stanno predisponendo i Programmi di Sviluppo Rurale (Psr) con una impostazione ancor più arretrata: per la diffusione delle imprese agricole
multifunzionali sono riservate risorse molto scarse, che si aggirano intorno al
5 per cento del totale della spesa complessiva; e per lo sviluppo delle aree
rurali le percentuali previste sono ancora più basse. Eppure, l'evidenza
empirica in tutto l'Occidente dimostra i limiti di un approccio settoriale,
fondato esclusivamente sull'agricoltura. Non solo tale modalità di intervento
non è in grado di produrre sviluppo duraturo e sostenibile. Ma spesso si
accompagna a fenomeni di ulteriore caduta di popolazione, perdita di servizi
collettivi, invecchiamento, emarginazione, specie se la tenuta fa leva su
politiche agricole di solo trasferimento e genericamente rivolte a sostenere
mercati e redditi.

Una politica di marketing territoriale
L'agricoltura non è in grado - è questo il punto che si fa fatica a comprendere
- di produrre da sola le condizioni per la sopravvivenza delle aree rurali.
Nello stesso tempo, il suo sviluppo dipende dallo sviluppo rurale. Dal quale
derivano gran parte della domanda dei propri prodotti e servizi e lo scambio, a reciproco vantaggio, dei fattori produttivi, in particolare capacità
imprenditoriale e lavoro. Inoltre è nell'ambito dello sviluppo rurale che
l'agricoltura svolge l'attività di promozione esterna, proponendosi come
veicolo di un marketing che non è più né di prodotto, né di settore, ma
complessivamente territoriale. Questa funzione rafforza e non indebolisce le
strategie più complessive di internazionalizzazione delle imprese. Le quali
hanno sì la necessità di accrescere la propria dimensione economica, ma anche l'interesse a mantenere uno stretto rapporto con il territorio e dunque a favorire iniziative di sviluppo locale per far sì che quel territorio medesimo
conservi una sua peculiarità e non diventi uno dei tanti.

Uno stop alle vecchie logiche
Continuare ad agire secondo le vecchie logiche significa abbandonare il timone e lasciare che l'agricoltura europea e le aree rurali vadano alla deriva senza guida nelle onde dei conflitti d'interesse europei e mondiali. Questo potrebbe costituire l'inizio della fine della storia della Pac, avviatasi in modo così promettente. L'unica prospettiva auspicabile è che essa diventi effettivamente parte integrante della politica strutturale. Solo così l'agricoltura potrà continuare a svolgere il ruolo di coesione europea che ha avuto dall'inizio.