Economia
Pac sì, Pac no. Occorre andare oltre
Le riflessioni all’indomani dell'assemblea del PD sull'agricoltura. Le riforme che l’Ue realizza sono utili, ma restano in uno schema statico. Solo attraverso una nuova visione si può favorire l’innovazione sociale e ottenere una coerenza tra le politiche agricole ai diversi livelli
16 giugno 2012 | Alfonso Pascale
E’ fuor di dubbio che il PD è l’unico partito in Italia ad avere un luogo stabile di discussione politica sui temi dell’agricoltura, aperto anche a soggetti economici e sociali e a personalità del mondo della tecnica e della ricerca che non hanno vincoli di appartenenza al partito.
E’ merito di Enzo Lavarra, Presidente del Forum Agricoltura, aver conseguito questo risultato, aprendo porte e finestre dell’organismo da lui diretto alla pluralità delle agricolture italiane.
L’estesa partecipazione di esponenti delle istituzioni e delle diverse organizzazioni, nonché di imprenditrici e imprenditori, portatori di pratiche riferite alla pluralità dei modelli agricoli presenti nel nostro Paese, all’Assemblea di giovedì scorso a Roma, è l’esito di tale sforzo.
L’attenzione degli intervenuti si è concentrata su di una serie di temi e proposte che dovrebbero comporre i punti fondamentali di una politica agricola nazionale, che manca ormai dalla metà degli anni Ottanta del secolo scorso, quando si esaurì la breve stagione dei piani agricoli nazionali varati per iniziativa dei ministri Marcora e Pandolfi.
I titoli di questa possibile politica proposti da Lavarra sono i seguenti:
1) sostegno alla competitività del Made in Italy sui mercati internazionali, da realizzare razionalizzando e coordinando gli innumerevoli enti di promozione e lottando le contraffazioni, le frodi e le sofisticazioni;
2) rafforzamento delle organizzazioni dei produttori;
3) riordino degli enti vigilati dal ministero delle politiche agricole;
4) rilancio della ricerca in agricoltura;
5) valorizzazione del lavoro in agricoltura combattendo l’intermediazione illecita di mano d’opera, che ha assunto le forme di nuovo schiavismo;
6) manutenzione del territorio mediante interventi di prevenzione dei rischi idrogeologici e di bonifica;
7) agevolazioni fiscali e creditizie finalizzate al ricambio generazionale e di genere;
8) sostegno alle agricolture urbane e periurbane e alle nuove forme di integrazione tra città e campagna (agricoltura sociale, orti urbani, farmer’s market, ecc.).
Se si scorre attentamente questo elenco, l’unica novità la troviamo nell’ultimo punto. Finalmente un grande partito come il PD mostra attenzione al fenomeno della riurbanizzazione e ai nuovi modelli di welfare che si stanno affermando con l’agricoltura sociale.
Gli altri temi, in realtà, erano già presenti precedentemente nel dibattito pubblico, ma non si sono mai tramutati in proposte concrete e fattibili e soprattutto in provvedimenti normativi e in strategie negoziali a livello comunitario e internazionale.
Per affrontare i problemi non è, infatti, sufficiente elencarli senza inserirli in una strategia condivisa. Solo avendo una visione, si può cogliere e favorire l’innovazione sociale e spingere per ottenere una coerenza tra le politiche agricole ai diversi livelli (regionale, nazionale, comunitario) e gli impegni che si assumono con gli accordi internazionali. Ma senza una visione d’insieme, che riguardi innanzitutto i nuovi assetti capitalistici che si stanno determinando per uscire dalla crisi economica e finanziaria, non c’è alcuna possibilità per la politica di incidere nei processi economici e sociali, che continueranno ad aversi regolati dalla “legge del più forte” e dalla capacità della società civile di organizzarsi spontaneamente.
Mi ha colpito che Lavarra ha affrontato all’inizio della sua relazione l’immane sfida dell’insicurezza alimentare come un capitolo a se stante e del tutto scollegato dal resto. Quasi a dire: nel mondo accade questo, ma a noi, in Europa e in Italia, non ci riguarda e continuiamo comunque a pensare e a fare come prima.
Ma l’insicurezza alimentare è la risultante del concorso di tutta una serie di circostanze. Si possono formulare quattro ipotesi circa le cause all'origine di tale deficit, tenendo però ben presente che nella maggior parte dei casi l'insicurezza alimentare è dovuta ad una combinazione di molteplici scenari, i cui effetti sono cumulativi:
- una produzione strutturalmente insufficiente, senza che il paese in questione sia in grado di rimediare a questo deficit con le importazioni di derrate alimentari;
- una domanda insufficiente dovuta alle condizioni di povertà della popolazione, che ne limita l'accesso al cibo;
- una forte instabilità della produzione alimentare e/o della domanda di derrate alimentari, collegata alla forte volatilità dei prezzi;
- problemi di accesso alle derrate alimentari per via di una situazione di conflitto o di crisi.
Questa gigantesca sfida va collocata dentro l’altra sfida: la crisi finanziaria e della forma di assetto capitalistico e della governance connessa, nella quale siamo.
Il compito che ha questa generazione è proprio quello di situare dentro questa crisi le antiche questioni della fame e del sottosviluppo in termini analitici e nell’agire politico.
Il Piano di azione sulla volatilità dei prezzi alimentari e sull’agricoltura che ha concluso la riunione dei Ministri dell’agricoltura del G20 (Parigi 22-23 giugno 2011) ha soltanto iniziato a mettere mano a questa strategica riforma: tra reticenze e contraddizioni.
Ci vorrebbe ora una grande iniziativa politica per tenere insieme l’azione per fronteggiare l’insicurezza alimentare e lo sbocco da dare alla crisi finanziaria come due facce della stessa medaglia.
Nei giorni scorsi, sulle pagine milanesi del Corriere della Sera sono divampate le polemiche su Expo 2015 suscitate dalle dichiarazioni di Pisapia, che ha chiesto giustamente al governo di assumere un impegno diretto nella preparazione dell’evento.
E’ un’occasione irripetibile per l’Italia per tenere viva l’attenzione sulle politiche globali del cibo, coinvolgendo le grandi istituzioni internazionali, a partire dalla FAO che ha sede a Roma. Expo 2015 dovrà essere prima di tutto una vetrina dei problemi giganteschi che il mondo ha dinanzi a sé. E poi tutto il resto, business compreso.
Alla domanda “chi nutrirà il mondo?” la risposta è: solo il mondo potrà nutrire il mondo. Intendendo, con queste parole, che il vero piano di azione è che noi, cioè Europa e Occidente, dobbiamo agire affinché i popoli che stanno in una condizione di insicurezza alimentare possano nutrire se stessi. E, prima di tutto, non dobbiamo impedirglielo con le nostre politiche commerciali, agricole, alimentari, energetiche, finanziarie.
Inoltre, questa parte di mondo in cui noi viviamo deve prioritariamente concentrarsi a rimuovere gli ostacoli e a fare riforme strategiche in ordine ad alcuni contesti nei quali l’insicurezza alimentare nasce, si inasprisce e miete vittime. Solo dopo (ma non mi riferisco ad un “dopo” cronologico, bensi metodologico) che questi contesti sono riformati, è possibile agire sugli aspetti e sui fattori interni alle situazioni sociali, politiche ed economiche di insicurezza (sviluppo delle agricolture locali, dei mercati regionali, le riserve strategiche, ecc.).
Oggi non c’è un solo soggetto politico che abbia una visione strategica su come affrontare tali nodi e questo impedisce una coerenza tra le diverse politiche. Ma le resistenze diffuse che s’incontrano a formulare coerentemente le diverse politiche sono anche la causa principale del ritardo nel dotarci di una strategia che affronti l’insicurezza alimentare e la crisi finanziaria in una dimensione mondiale.
Il relatore speciale dell'ONU sul Diritto all'alimentazione, Olivier De Schutter, ha espresso serie critiche al pacchetto legislativo di riforma della PAC. Lo ha fatto con uno specifico Rapporto all'Assemblea delle Nazioni Unite.
Come ha osservato il Presidente della Sezione Agricoltura e Ambiente del CESE, Mario Campli, è la struttura stessa della PAC che suscita obiezioni e riserve. Le riforme che da anni la UE realizza sono certamente utili, ma restano all'interno di uno schema statico: aiuti diretti e graduale smantellamento di interventi di mercato.
Tale modello è nato quando i mercati erano prevalentemente chiusi e protetti.
Ma oggi – in un nuovo e ineliminabile contesto di mercati aperti (e prevalentemente non regolati) - dobbiamo chiederci se tale schema contribuisce alla instabilità dei mercati e dei prezzi.
Un’altra impostazione della PAC – tesa a regolare primariamente i mercati agricoli e a stabilizzare i prezzi (quindi, difendere i redditi indirettamente) e solo ad integrazione di un tale sistema concedere anche aiuti al reddito mirati ad aree territoriali e per classi di reddito - potrebbe essere molto meno criticabile, a prescindere dalla quantità di spesa pubblica impegnata; e più spendibile sia sul piano politico/negoziale sia come contributo alla regolazione dei mercati internazionali.
Quindi la cosa da fare è ragionare non sull’alternativa “PAC Sì / PAC No”, che è banale, ma sulla possibilità di avere un'altra PAC rispetto a quella che abbiamo da 20 anni. Una PAC che guardi con vero interesse alle nuove sfide globali e investa sull’innovazione per una modernità sostenibile.
Se la PAC continua, invece, ad essere intesa come una sorta di rendita di posizione, che blocca l’innovazione e il dinamismo sociale, non si va da nessuna parte. E questa visione arretrata fa il paio con la visione statica di un’italianità legata esclusivamente alla conservazione di determinati prodotti, difesi con marchi collettivi, etichettature, riconoscimenti Unesco e relative politiche di promozione.
Si tratta, invece, di spingere verso un’innovazione intesa come affermazione di nuove idee per soddisfare bisogni sociali e creare continuamente mercati fondati su relazioni interpersonali. Aver rinunciato alla creatività pensando di vivere di rendita per le cose fatte in passato è all’origine del nostro declino.
La nostra tradizione va sempre rivitalizzata con dinamicità e in modo innovativo proprio per restare fedeli ai suoi caratteri peculiari. E una siffatta italianità, fondata sull’innovazione sociale e sul saper fare, è una grande risorsa soprattutto ora che, nei Paesi emergenti, entrano in scena milioni di nuovi consumatori che stanno modificando la propria dieta alimentare.
Occorrerebbe scambiare nei mercati globali non solo merci, ma culture alimentari, pratiche civili comunitarie legate all’agricoltura e alla pesca, modelli di welfare e di tutela dei beni comuni, tecnologie verdi, per produrre innovazione sociale continua.
Bisognerebbe mettere in relazione, nell’ambito di una competizione non già posizionale ma cooperativa, territori europei e territori dei paesi emergenti come lunghe filiere che uniscono sistemi locali.
Concepita così la sfida della globalizzazione, la politica europea di sviluppo rurale e la correlata politica agricola nazionale diventano strategiche per promuovere effettivamente la progettazione integrata territoriale, collegandola al sostegno della multifunzionalità e della creazione di organizzazioni economiche capaci di agire sul mercato interno e su quello globale in modo coerente e integrato.
Il riconoscimento dei diversi modelli di agricoltura non può tradursi in una separatezza e incomunicabilità di strumenti e di percorsi, ma in un’integrazione reale a livello territoriale di supporti istituzionali, ricerca, organizzazione economica dei produttori, costruzione di reti sociali di cittadini interessati alla cultura del cibo, percorsi concreti di gestione sociale del collocamento agricolo, ecc.
Del resto, è già questo il nuovo mondo che sta nascendo e che la politica non riesce ad intercettare.
Intorno al tema del cibo e delle connessioni con la tutela delle risorse naturali sta emergendo una nuova società civile. Essa si differenzia dalla precedente perché non è modellata in base alle forme definite dalle politiche economiche e dai sistemi di welfare (categorie, settori merceologici, imprenditori, lavoratori autonomi, lavoratori dipendenti, occupati, disoccupati, produttori, consumatori, disabili, non autosufficienti, pensionati, ecc.).
Sono reti di cittadini in quanto tali, che cercano di sfuggire alle logiche di appartenenza ideologiche, di classe, di ceto, di categoria, di bisogni.
La difficoltà è nel costruire un nuovo senso di appartenenza o valore di legame.
Forse si dovrebbe rilanciare il terzo pilastro della rivoluzione francese: una fraternità dei moderni, civile, universalistica, fondata sulla propensione al bene comune che c'è in modo latente in ciascun individuo, sul dovere della solidarietà e sulla responsabilità.
La sfida sta qui! Se la politica non la coglie, sarà la nuova società civile a farlo. Non in contrapposizione al sistema politico, ma in una logica di sussidiarietà.

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Accedi o RegistratiDario Marino
17 giugno 2012 ore 19:21Questo articolo mi ha sollecitato diverse riflessioni che mi permetto di condividere. Provengo da uno dei tanti paesi del Meridione d'Italia. Nell'entroterra rurale la sostenibilità si praticava ancora prima che questa parola stessa esistesse. Sconfitto dalla storia, ai margini dello sviluppo economico, periferia rurale, serbatoio di emigranti per costruire l'utopia consumistica nelle città del Nord Italia, della Germania e ancora più lontano, questo territorio, simile ad altri, aveva conservato un piccolo mondo, fatto di relazioni solidali, autonomia alimentare e civilissima cultura contadina. Oggi poco rimane di quel mondo, anche perchè trenta anni di assistenzialismo senza criterio, di aiuti comunitari a pioggia hanno rovinato una generazione di contadini e pastori. Paradossalmente il welfare ha tolto contenuti all'iniziativa privata e aumentato il clientelarismo. Le politiche economiche locali, nazionali ed europee hanno fallito ad ogni livello soffocando, come spesso accade, la società civile. Negli ultimi trent'anni nei nostri paesi si poteva osservare un esercito di professionisti che sbrigava pratiche di finanziamento, alcuni sindaci, estranei al paese e alla sua cultura, che realizzavano i propri sogni di modernità e urbanesimo costruendo castelli di cemento con piante esotiche a km dal borgo, mentre le comunità montane pensavano a distribuire posti di lavoro per amici e piantare salici e palme al posto del patrimonio vegetale autoctono. Ovviamente esitono delle eccezioni, alcune mosche bianche. Il problema che si pone in questo articolo è evidentemente culturale e non di natura economica. Il successo della costruzione di una modernità sostenibile non dipende dalla quantità di spesa pubblica impegnata nell'agricoltura, ma ha a che fare con una visione del mondo radicale. Anche a livello locale, vi sono molteplici difficoltà culturali perchè si lotta ogni giorno contro il conservatorismo di idee e privilegi. Nelle piccole realtà del meridione bisogna combattere anche quotidianamente contro una mentalità sedimentata da decenni di politiche sbagliate. Vi è gran parte dell'elitè locale che non sapendo piantare pomodori e melanzane, preferisce coltivare invidia e disfattismo. Sentimenti diffusi e infestati che come la gramigna vanno sraicati a mani nude. Vi è necessità di una vera e propria rivoluzione copernicana che ci permetta di riscoprire il senso dei luoghi, guardare ad un futuro arcaico e costruire finanche un linguaggio nuovo. Non credo che i partiti riescano a veicolare questa rivoluzione culturale e delle colture, costituendo essi stessi un freno ad essa. Roma è lontana. Coloro che decidono magari non si sono mai sporcati le mani di terra e non riconoscerebbero un albero neanche se quest'ultimo si mettesse all'improvviso a parlare. Alcune visioni del mondo bisogna prima praticarle e poi predicarle, per coglierne appieno la complessità. Non sono sicuro che le aspirazioni della società civile, primariamente di quella rurale, oggi possano convivere con un modo di fare politica che è espressione di modelli culturali ed economici diametralmente opposti, che avevano relegato la ruralità a periferia. Agricoltura, società, economia e politica fanno parte di un'unica sfida. Innovazione sociale, pratiche civili, beni comuni, transizione, agricoltura sostenibile si accompagnano solo ad una visione del mondo che non parla più di rappresentanza, partiti e centralizzazione, ma di federalismo, autonomia e democrazia diretta. Società civile e politica: quale rapporto? Penso che la politica oggi sia come un cumulo di letame bovino fresco. E' maleodorante, ma se intervengono processi di fermentazione, di areazione, insime al lavorio di lombrichi dopo qualche mese diviene maturo, contenendo azoto fosforo e potassio di cui la terra ha bisogno e smettendo anche di puzzare. Anzi odora gradevolmente di humus. Questi processi di fermentazione nella mia metafora devono essere attivati dalla società civile. Magari mi spiego meglio con un altro esempio. Un processo di fermentazione è anche quello operato da alcune specie di funghi che aggrediscono rami secchi, foglie, parti di piante malate o finite per ciclo naturale per accellerarne la fine, disfacendone la forma e liberando il più velocemente possibile le sostanze che devono essere disponibili per le piante sane. Insomma, esiste nel regno vegetale una legge impietosa che dovremmo applicare anche alla politica: se una forma di vita declina, la Natura interviene con diversi modi per accellerarne la distruzione al solo supremo fine di rinnovare le sue forme di vita. Goethe affermava che la morte è la condizione del rinnovarsi della vita... Scusate se come al solito mi dilungo e divago troppo.
Marina Berardi
19 giugno 2012 ore 11:22Leggo con molta attenzione la nota "Pac si, Pac no. Occorre andare oltre" e quelli messi in campo sono più livelli di una complessa e stratificata situazione politico, sociale e culturale. L'attenzione politica alle dinamiche agricole mette in luce la necessità di un ripensamento che inevitabilmente sta accadendo. Le agende si infittiscono di dictat che riguardano sempre più il nuovo rapporto con la dimensione agricola che si spoglia del vecchio mantello che la vede legata solo alla dimensione rurale riconsocendo invece la nuova dimensione dialogica con i nuovi fenomeni di riurbanizzazione e volendo di ruralizzazione. Leggere quello che sta accadendo nel mondo della finanza, che a cascata si ripercuote nell'economia reale, e collegarlo alla questione alimentare e agricola non è mera astrazione ma è una presa di coscienza di un mutamento sostanziale che va compreso al fine di elaborare risposte adeguate. La sfida che giustamente poni ha tutti gli ingredienti di un'analisi attenta che introduce il criterio di sostenibilità tra le nuove filiere e frontiere alimentari e agricole. Le politiche alimentari sono assolutamente connesse e interrelate a quelle agricole.
I meccanismi di reciprocità diventano il fulcro da cui far dipanare tutto e quando parli delle forze latenti insite nell'individuo nel percorrere il bene comune immagino le forze infinite che l'Essere mette in campo al fine di poter raggiungere la felicità eudaimonica intrisa di relazioni, contraddizioni, conflitti e socialità.
Va rivisto in sostanza il nuovo rapporto con la dimensione agricola che assume aspetti peculiari nelle diverse comunità e nelle diverse urbanità. L'individuo abbandona le logiche consumeristiche alla luce di una più complessa considerazione di sè, non più homo economicus ma homo reciprocans.