Economia

LA SOCIETA' MUTA. PRENDE FORSE CORPO UNA NUOVA BORGHESIA RURALE?

E' necessario concepire un progetto nazionale per la competitività. Secondo Alfonso Pascale questo sarebbe da fondare sulla responsabilità sociale dell'imprenditore agricolo. I giovani sono aperti a un'ottica nuova. Non si limitano a soddisfare gli obblighi di legge, vanno oltre. Occorrono scelte strategiche

04 dicembre 2004 | Alfonso Pascale

La situazione di grave difficoltà in cui versa il settore agricolo richiederebbe la formulazione di un progetto nazionale per la competitività, da fondare sulla responsabilità sociale dell’imprenditore agricolo. Ma bisogna essere consapevoli che un tale progetto produrrebbe per sua natura una distinzione tra interessi disponibili a farsi galvanizzare e interessi che intendono continuare a resistere al cambiamento. Pertanto, non è sufficiente dire in modo generico che occorre far leva sulla molteplicità delle tipologie aziendali, senza individuare con maggiore precisione quell’area delle nostre imprese disponibili all’introduzione di modifiche profonde nell’intervento pubblico per ottenere risultati concreti in termini di competitività.


Oggi l’ imprenditore è libero di decidere se dare enfasi alla competizione oppure alle relazioni con gli altri. Sappiamo che nelle imprese agricole i frutti migliori si hanno quando la dimensione competitiva si integra con quella relazionale, che va vista, pertanto, del tutto organica alla logica di mercato. Di un mercato che evolve, per l’appunto, anche grazie a una buona dotazione di capitale sociale.

Spesso si parla a sproposito di responsabilità sociale d’impresa. Essa non è da intendere come nobile orpello etico di un’attività che invece avrebbe nella realizzazione di valore economico la sola ragion d’essere. Ma anche solo per rimanere sul piano economico, la responsabilità sociale è un investimento dal quale aspettarsi ritorni non solo per l’impresa ma anche per tutta la società, verso la quale i suoi obiettivi sono finalizzati. Investire in responsabilità sociale per gli agricoltori significa non solo produrre consenso e reputazione ma “beni pubblici”: più qualità, più tutela ambientale e paesaggistica, più utilizzo virtuoso ed efficiente delle risorse energetiche, più relazioni improntate al mutuo aiuto, più sviluppo che tenga conto dello spirito civico.

C’è un’area più o meno estesa di agricoltori, soprattutto nelle fasce di età più giovani, che già si muove in un’ottica di responsabilità sociale. Nelle loro attività, essi non si limitano a soddisfare gli obblighi di legge, ma vanno oltre. Praticano la multifunzionalità senza attendersi un sostegno pubblico. Partecipano attivamente alle iniziative di sviluppo locale. Sono consapevoli di possedere conoscenze e professionalità che li obbligano – un po’ come avveniva una volta con le rendite fondiarie – a metterle parzialmente a disposizione della società. Del resto la ruralità si è sempre caratterizzata per una forte componente valoriale ultimamente erosa dai processi di urbanizzazione. A questi antichi valori fanno riferimento oggi gli imprenditori socialmente responsabili.

Penso che le organizzazioni agricole dovrebbero scegliere questa neoborghesia rurale - che a differenza di quella storica non si caratterizza più per la proprietà fondiaria ma per essere proprietaria di saperi e di relazioni - e accompagnarla nella funzione di forza motrice dello sviluppo socialmente equo dei territori rurali, considerarla componente essenziale di quei ceti imprenditoriali agricoli europei che, nell’accogliere positivamente la sfida della riforma della Pac, possono più agevolmente farsi carico di unificare socialmente l’Europa.

Per accompagnare queste imprese nello svolgimento di una funzione che è locale e globale nello stesso tempo, dovremmo considerarle come l’asse del nostro sistema di rappresentanza, caratterizzare il progetto nazionale per la competitività con la loro impronta peculiare, assumere i loro programmi aziendali come criterio di priorità nell’ambito di interventi pubblici innovativi.

Tale scelta non significa abbandonare gli altri a se stessi o smettere di rispondere ai bisogni di chi soccombe nella competizione. Si tratta, invece, di avere il coraggio politico di non assecondare logiche di conservazione. Di darsi forza facendo leva su coloro che sono disponibili al cambiamento. Di mostrare creatività nell’individuare soluzioni innovative in una visione d’insieme. Di tentare un alleanza tra meriti e bisogni intorno ad un progetto condiviso.

Simile progetto può contare solo su scarse risorse. Pertanto, se ci dotiamo di una strategia saremo capaci di indicare priorità e nuove opportunità, contribuendo ad una maggiore mobilità e coesione.

La nuova Pac va nella direzione di allargare le opportunità alle imprese che si muovono in una logica di responsabilità sociale. Ci sono più risorse per lo sviluppo rurale. Sono stati potenziati gli interventi per la qualità. Rafforzate le misure ambientali. Si è introdotto il sostegno dei partenariati locali. Con il disaccoppiamento e la condizionalità si passa da una logica di generica tutela ambientale ad una logica più complessa di gestione della tutela ambientale. E’ un salto di qualità che dobbiamo saper gestire dando voce ai volenterosi e poco ascolto ai pigri. E costruendo servizi efficienti, senza sprechi. Dobbiamo, tuttavia, essere rigorosi anche nei settori in cui è rimasto un accoppiamento parziale del sostegno, dove si vorrebbero mantenere intatte strutture burocratiche che fino ad ieri erano utili per compilare centinaia di migliaia di domande. Ma con risorse che si sottrarrebbero a progetti innovativi. In tempi di vacche magre facciamo finta di nulla? Cosa direbbero gli agricoltori socialmente responsabili se fossero essi a decidere di questi soldi?

Se esaminiamo il “Consolidato” del sostegno al settore agricolo, che l’Inea calcola ogni anno nel suo “Rapporto sull’agricoltura italiana”, notiamo che il 65 per cento sono trasferimenti di politica agraria, di cui la fetta preponderante viene da Bruxelles. Ma c’è un 35 per cento che è fatto di varie agevolazioni. Si potrebbe effettuare un calcolo più articolato per vedere quante risorse vanno al sostegno degli investimenti, quante servono per lenire le ferite che le varie crisi producono e quante ancora non hanno particolari giustificazioni?

La Finanziaria 2005 non riserva alcuna posta di bilancio a favore dei giovani agricoltori. Si continua a non prendere in considerazione un intervento specifico per le imprese agricole al femminile, che sono quelle che più si spendono nella diversificazione delle attività. Con il decreto sulla crisi di mercato nel settore ortofrutticolo e dell’uva da tavola, si sono spostate risorse dal credito d’imposta a sostegno degli investimenti agli interventi di mercato senza una valutazione di opportunità. Ma ancor più grave è che con quei soldi si sono finanziate anche le polizze assicurative e gli adeguamenti strutturali dell’Agea che non c’entrano nulla con la crisi di mercato. Quelle risorse erano rimaste inutilizzate perché non si era tentato di adattare il credito d’imposta alle necessità delle imprese che si sperimentano nelle attività innovative. Non certo perché l’agricoltura italiana sia vocata per gli interventi di soccorso.

L’ultimo Rapporto Inea sull’insediamento e la permanenza dei giovani in agricoltura ci dice che siamo in enorme ritardo su tale politica. Nel triennio 1999-2001 hanno beneficiato dell’intervento dell’Ismea per l’acquisto di terra solo 384 giovani imprenditori. Un numero irrilevante se consideriamo che le imprese giovani in agricoltura sono ben 269 mila. Tra il 2000-2003, hanno beneficiato dei premi per il primo insediamento 27 mila giovani, ma la misura dello sviluppo rurale per gli investimenti è andata solo a 13 mila agricoltori di età inferiore ai 40 anni.

Nella fase applicativa della riforma della Pac ancora non si è preso in considerazione un criterio di priorità per i giovani all’interno dei diversi strumenti, a partire dalla riserva nazionale.

Se manca una scelta strategica a favore delle imprese giovani, l’agricoltura italiana non si salverà dal rischio del declino e non si salveranno nemmeno le organizzazioni agricole. Dalle difficoltà in cui si dimena, il settore primario potrà uscire solo elaborando un progetto. Se non si avvierà un processo di forte rimotivazione intorno ad un’idea, non si andrà oltre qualche laborioso ma inutile rattoppo e rappezzo.