Cultura

Giuseppe Pontiggia, cinque anni dopo. Il ricordo

L'uomo e lo scrittore. L'omaggio di chi lo ha conosciuto e apprezzato da vicino. A distanza di un lustro, la sua scomparsa lascia un vuoto incolmabile. Ma i grandi maestri, si sa, continuano a insegnare attraverso le loro opere

28 giugno 2008 | T N

Nato a Como il 25 settembre del 1934, alle ore 20.10, per parto podalico nella clinica della Camerlata di Rebbio, Giuseppe Pontiggia è morto a Milano il 27 giugno 2003, intorno all'una di notte, per collasso cardiocircolatorio. Lascia la moglie Lucia e il figlio Andrea, oltre che la vasta comunità di lettori e amici.
La biografia di Pontiggia, nelle sue tappe essenziali, compare a cura di Daniela Marcheschi nel volume Opere, edito nella collana "I Meridiani" di Mondadori.
Giuseppe, Peppo per chi lo ha frequentato, riposa nel cimitero di Arcellasco, una frazione di Erba, in provincia di Como, dove era vissuto negli anni giovanili prima di stabilirsi nel capoluogo lombardo: link esterno
"Teatro Naturale" lo ricorda con grande affetto. Sarebbe stato un magnifico suggeritore di libri per i nostri lettori, com'era nella sua intenzione a pochi mesi dalla nascita del nostro settimanale. La morte, prematura, non ci ha permesso di averlo nel suo ruolo di maestro e suscitatore di idee.

Abbiamo voluto ricordarlo, a cinque anni dalla sua scomparsa, con le parole di alcuni tra i tanti che hanno avuto modo e piacere di frequentarlo. Peppo è sempre presente e vicino a ciascuno di noi attraverso le sue opere. La sua storia è dentro di noi, ci appartiene.



MARCHESCHI: Le istanze della letteratura autentica

Giuseppe Pontiggia capiva la letteratura, la sapeva riconoscere come l’Orco delle favole sente infallibilmente «odor di cristianucci». Ne aveva una concezione di largo respiro, consapevole che la letteratura nasce nel più ampio dialogo e nell’appassionata negoziazione dei valori; che un dibattito franco contribuisce a chiarire le problematiche formali e ad arricchire il lavoro di tutti. Non per nulla era molto attento alla critica, con cui si misurava nello spirito di migliorare le proprie opere e di mettere ulteriormente a punto il proprio pensiero.

Pontiggia manca non solo come uomo – per quella persona civile, intelligente, affettuosa e compiuta in se stessa che era -, ma anche come pensatore acuto e libero, che sapeva distinguere fra compito critico dell’intellettuale e impegno dell’individuo, e che era in grado di costruire e guardare in alto, di cogliere magari in maniera illuminante e caustica una questione, un nodo della vita del nostro paese.

E, non ultimo, non manca certamente meno come scrittore tout court. Ĕ stato infatti uno degli autori che più si sono impegnati per restituire alla letteratura un serio fondamento razionalistico, un alto spessore espressivo e riflessivo insieme. La sua profonda attenzione alla cultura, lo studio tenace per meditare e dotarsi di strumenti conoscitivi sempre più adatti alla complessità del nostro tempo, ne fanno un esempio raro.

In un mondo in cui “raccontare una storia” è spesso inteso esclusivamente come l’attraente confezione di un prodotto di mercato, Pontiggia ha saputo essere popolare, cioè «populista» in senso forte (da non confondere con “demagogico” che è ben altra cosa), salvaguardando le istanze della letteratura autentica e la sua capacità di parlare al grande pubblico senza facili concessioni.

Daniela Marcheschi
Saggista, studiosa di letterature, antropologa: link esterno


FERRERO: Un Kagemusha sorridente e generoso

Raramente ho visto una comunità così profondamente scossa e smarrita come quella di tanti scrittori, di fronte alla notizia improvvisa della scomparsa di Peppo Pontiggia. Avevamo tutti bisogno di quel Kagemusha sorridente e generoso di sé, solidamente piantato al centro dei territori della scrittura.

Avevamo pudore a disturbarlo, perchè come tutte le persone necessarie era assediato da torme di postulanti, anche se validamente difeso dall'eroica, meravigliosa Lucia (bene ha fatto il "Corriere della Sera" a pubblicare una foto di Peppo con Lucia: quando dico Peppo, dico anche Peppo più Lucia più Andrea). Ma il dialogo mentale era continuo, le risposte ci arrivavano in automatico sapendo come lui la pensava, e quel che lui scriveva.

Il Peppo che mi è indispensabile è quello saggistico, dizione che ne comprende tante altre. L'antropologo del linguaggio, che attraverso le ambiguità, ma anche le vertiginose ricchezze del linguaggio smonta implacabilmente tutte le convenzioni risibili, le ipocrisie, le pigrizie, le servitù mentali, le bassezze, le cialtronerie, i luoghi comuni del vivere associato. Dove l'originalità dell'approccio, l'esattezza dell'analisi, la fulmineità degli affondo non diventava mai sdegno, invettiva, ma un sorriso misterioso, tonificante, come rasserenato dalla sua stessa intelligenza.

La sua misura ideale erano le voci dell'Album mensile che appriva sul supplemento domenicale del "Sole24Ore". Il lettore ne usciva ammirato ma non disperato. Era anzi spronato a leggere di più, a forgiarsi strumenti interpretativi un po' meno superficiali di quelli che correntemente usava. L'intelligenza ci fa sempre sentire meglio, quale che sia l'ambito cui si applica; e inversamente la stupidità ci deprime, ci uccide.

I libri in cui Peppo ha raccolto le sue riflessioni sono da tenere sul comodino, al pari dei Saggi di Montaigne. Sono un lume fraterno che ci consente di prendere le misure delle nostre tenebre, e di non disperare.

Ernesto Ferrero
Scrittore, critico letterario, direttore della Fiera internazionale del Libro di Torino: link esterno


BOUCHARD: «Colui che crea, che fa nascere»

«Più spesso auctor significa però colui che crea, che fa nascere,». Così finisce, con una virgola, la parte compiuta (mai parola fu meno fedele di questa) del saggio sul "Linguaggio autoritario" cui Giuseppe Pontiggia dedicò anni di lavoro. S’interrompe mentre stava approdando alla parola «dalla trasparenza ingannevole», a metà strada tra il francese autoritaire, del 1865, e la radice indoeuropea aug.

In questo accostamento di due parole e di due mondi, si palesa l’efficacia di un percorso cognitivo assurto a poetica. E nella luminosità di queste pagine, si staglia, insieme alla figura astratta dell’autore, quella di Giuseppe Pontiggia che tuttora «crea», «fa nascere» e «accresce» il nostro mondo.

François Bouchard
Traduttore di Giuseppe Pontiggia in Francia


HAGLUND CROCE: La chiaroveggenza

Con Nati due volte Giuseppe Pontiggia ha creato un racconto particolarmente forte, ambientato in una realtà piena di tabù e capace di muoversi con un ingrediente quale la chiaroveggenza, in particolare nella descrizione del sentimento vacillante tra disperazione, paura di sbagliare ma anche gioia di vedere crescere e diventare davvero adulto il figlio. C'è tutto: l'atteggiamento contrastante dei genitori, della famiglia e della società nei confronti dell'handicap di Paolo. E tutto sembra autentico grazie alla «distanziata vicinanza» della voce narrativa, che permette a me come lettore di percepire/fare mio un difficile destino e gioire di un testo scritto molto bene.

Yrja Cecilia Haglund Croce
Università degli Studi di Firenze, Dipartimento di Filologia Moderna


ANELLI: L’inesausta tensione fra etica e scrittura

Rodolfo Quadrelli e Giuseppe Pontiggia nel comune interesse per Eliot e per le dimensioni presenti e future delle tradizioni - di ciò che vale la pena di tramandare –avevano una visione non antiquaria e cimiteriale delle tensioni che animano le culture e la storia, insomma del passato.

Di Pontiggia Quadrelli diceva che era uno scrittore che «prima di scrivere si metteva una mano sulla coscienza» intuendo prima di altri, e nei modi che gli erano propri quell’inesausta tensione fra etica e scrittura che è la cifra dei migliori autori del Secondo Novecento, innanzi tutto a partire da un’etica della scrittura di una parola chiara, profonda, ed efficace. Tensione veritativa che in Giuseppe Pontiggia si univa ad una notevole capacità d’ascolto discreto e di dialogo con “chi ha orecchie”, di scambi di pareri senza preclusioni, d’emendamenti.

Scrivere e leggere, ma anche dialogare con l’altro, «per essere vivi ed autentici», nella dimensione corporea della messa in comune di senso, nell’accezione più vasta del comunicare. Queste capacità ricettive, di lasciarsi impregnare come una spugna dove un senso e un valore sono riconosciuti o presentiti, appartengono al lato passivo di quella maestria e capacità comunicativa, anche di massa, che la critica più avvertita sempre più viene individuando in questi anni. Una ricca trama di interrelazioni che sempre meglio si evidenzieranno con l’emergere delle carte e dei carteggi e quant’altro, di Pontiggia con gli attori di questo fitto dialogo.

Amedeo Anelli
Critico, poeta e direttore della rivista Kamen': link esterno


GARAVELLI: Un benevolo patriarca

La prima volta che ho incontrato Giuseppe Pontiggia, o Peppo, come amava farsi chiamare, è stato a casa sua, con la sua famiglia. Sua moglie Lucia, suo figlio, il cane Red, un bellissimo setter irlandese. Questo paesaggio familiare lo completava, lo faceva come brillare di una luce costante e serena. Ero lì per intervistarlo per "Avvenire": ero una giovane collaboratrice della pagina culturale, a una delle mie prime esperienze, ma la mia insicurezza si dissolse come una bolla di sapone contro la sua bonaria calma.

Mi trasmise un grande entusiasmo per il mio lavoro, un calore incoraggiante, una piccola scorta di energia da spendere per il futuro. È quello che fece anche più avanti, quando la conoscenza si approfondì, leggendo i miei romanzi, telefonandomi a proposito del primo (con grandissima emozione da parte mia, quasi da perdere i sensi), per poi scrivermi bellissime lettere (che naturalmente tengo care) sugli altri. Di Beatrice salutò la conquistata maturità in una lettera del 18 giugno 2002, che, ancora non sapevamo, precedeva di circa un anno la sua scomparsa.

In quella casa c'erano anche i suoi amati libri. Un po' erano parte della famiglia, e perciò ricevevano il suo amore. Essere un collezionista, come dice Pierangelo Garzia, studioso dei segreti della mente umana, è essere una collecting mind, qualcuno che insieme alle provviste per l'inverno, la sicurezza per il corpo, vuole anche avere intorno a sé ciò che può rappresentare la sicurezza per il proprio benessere mentale. E i suoi libri, eleganti, preziosi, erano quanto di meglio potesse trovare per assicurarsi questo benessere non materiale.

Giuseppe Pontiggia era proprio questo: un benevolo patriarca, un possidente di beni mentali, per parafrasare una bella poesia di Valerio Magrelli, beni dai quali otteneva interessi che gestiva generosamente, donando a chi riteneva degno la sua stima, il suo affettuoso pensiero, la sua voce avvolgente.

Bianca Garavelli
Narratrice, interprete di Dante e critico letterario: link esterno


ALBERTINI: Le lettere e il "pranzo di Babette"

Ho vagheggiato per anni un incontro con Giuseppe Pontiggia.
Invece, nell’arco di quasi dieci anni, gli ho parlato soltanto una volta, per pochi secondi.
Al termine di un corso di scrittura che aveva tenuto nella mia città, approfittando di un’attesa imprevista, prima che lo riportassero in stazione, mi ero avvicinato alla cattedra arrossendo, per mostrargli alcune righe e ricevere il suo illustre commento.

Iniziammo poi una corrispondenza, ogni volta che recensivo un suo libro sul quotidiano locale, o gli spedivo piccoli omaggi legati alle sue passioni.
Anzi, non osai spedirgli la prima recensione che scrissi dopo aver frequentato il suo corso.
Mi vergognai di un errore di stampa che aveva pregiudicato il testo: un “mai” era diventato un “ma” e il senso della frase si era addirittura capovolto. La spedì – per fortuna – un suo amico giornalista che quel sabato aveva letto la Pagina Libri del Giornale di Brescia.
Lui mi scrisse un biglietto di ringraziamento che ancora oggi considero un momento di svolta nella mia vita.
Scrisse che la mia recensione de “I contemporanei del futuro” gli aveva dato “…una gioia particolare, come quando si scopre che il libro ha trovato il suo lettore, quello per cui idealmente lo si era scritto”.

Io che faccio il lettore e lo scrittore come secondo lavoro, e ho inseguito fin dall’infanzia il sogno di un’altra vita, ricevetti da quel biglietto un incoraggiamento decisivo a proseguire.
Ogni sua lettera è stata per me un evento: sapevo che aveva poco tempo e che riceveva centinaia di stimoli, richieste e contatti. Eppure trovava sempre il tempo per ringraziarmi e commentare i miei articoli. Quando le rileggo sento il privilegio e il dono di questo prezioso colloquio a distanza.

Forse sono colui al quale ha scritto l’ultima lettera, pochi giorni prima della morte improvvisa. Gli avevo spedito la bozza di un saggio sulla sua scrittura (poi pubblicato con l’Obliquo): prendendo spunto dalle traduzioni in inglese e tedesco del suo capolavoro “Nati due volte”, dai corsi di scrittura e dagli articoli sull’Album domenicale de Il Sole 24 Ore, cercai di ricavare una sorta di “metodo” Pontiggia, utile a tutti, per smascherare ad esempio gli inganni del linguaggio, e dunque anche quelli di fatto.

Rimase molto colpito dal mio saggio e lo definì “…un contributo fondamentale per capire il senso del mio lavoro e certi aspetti essenziali di quello che lei chiama il mio metodo e che ha approfondito – come nessuno ha fatto – ricordando i miei corsi di scrittura”.
Lo invitai molte volte a casa mia, promettendogli di preparare per l’occasione un “pranzo di Babette”.
Lo immagino sorridere alla lettura dei miei inviti un po’ ingenui.
“Teniamolo come appuntamento ideale”, mi rispose un giorno.

Alberto Albertini
Scrittore, giornalista


DE SANTIS: L’importanza di avere un maestro

«Ho sempre avuto bisogno di sapere che vi fosse qualcuno che giudicasse il mio lavoro promettente e ben indirizzato, e mi sono spesso meravigliato che altri avessero fiducia in me quando io stesso ne avevo pochissima. A volte ho anche tentato di liberarmi dalla responsabilità che la loro continua fiducia mi addossava, dicendomi: “Ma in realtà essi non sanno che cosa io stia facendo. Come possono saperlo se io stesso non lo so?”».

Prendo a prestito questa frase di Gregory Bateson, posta in apertura del volume Verso un’ecologia della mente, per ricordare la capacità dell’uomo Pontiggia di divinare (o inventare) destini, instradando tanti al lavoro culturale, incoraggiandoli a coltivare con concentrazione e onestà l’esercizio intellettuale, senza mai perdere di vista le ambizioni più alte ma affinando insieme l’ironia e il senso del limite. E la straordinaria generosità che gli faceva trovare sempre il tempo per seguire gli sviluppi di quei destini, per accompagnarli col conforto di parole precise, pronunciate o scritte per ciascuno di essi.

La sua fiducia è stata artimone di vocazioni inconsapevoli o indecise, la sua lezione levatrice di idee in anni deboli e chiassosi, la sua scrittura modello di un uso della lingua sapiente e responsabile.
Come il lettore più attento che, di un testo, finisce per saperne più dell’autore, così il Peppo ha lasciato nella vita molti di noi (giovani ed ex-giovani) la traccia di un’interpretazione che ora ci appare quasi un presagio. Il dono inesauribile di un senso da ri-cercare, di una direzione da seguire. E quella scontentezza stilistica, da lui presa in prestito, che ci spinge a migliorare, a migliorarci.

Cristiana De Santis
Università di Bologna: link esterno


GIAMETTA: L'ultima volta che lo vidi

L’ultima volta che vidi Giuseppe Pontiggia, il “Peppo”, quale ormai era anche per me, fu pochi mesi prima della sua morte. Ero andato a Palazzo Sormani, dove, nella sala del Grechetto, Pietro Cheli lo avrebbe intervistato a proposito dei suoi romanzi.
L’intervista si svolse nel modo per lui – e solo per lui – solito: cioè, in risposta alle domande che Cheli gli faceva, con un discorso a tutto campo sulla storia dei suoi romanzi, ricca di osservazioni e notazioni originali sulla sua e loro formazione, ma soprattutto su situazioni, costumi e circostanze delle diverse epoche in cui li aveva scritti, oggettiva e lontana da ogni autoesaltazione. Fu un’ulteriore prova della sua maestria, fu un discorso originale e tutto creativo, secondo la sua mente quadrata e innovativa, per cui era ritenuto, nei giudizi che dava, giudizi ambitissimi e tesorizzati da chi li riceveva (come me), un “Buddha” di massima saggezza, perspicacia e misura.
La sua morte è stata per tutti, e anche per me personalmente, una grande perdita.

Sossio Giametta
Filosofo e narratore: link esterno


NERI: Le parole del sacerdote

Mio fratello Peppo è sepolto nel cimitero di Arcellasco, una frazione di Erba.
Il giovane prete, che ha officiato il rito quel giorno, ha detto poche parole, ma semplici e cordiali.
Sono sicuro che al Peppo sarebbero piaciute.
Giampiero Neri
Poeta: link esterno


ICHINO: L’intersezione feconda

Era la primavera del 2001, avevo appena compiuto ventitré anni e da pochi mesi lavoravo alla Mondadori come redattrice, sotto la guida di Renata Colorni e Antonio Franchini.
Ogni mattina attraversavo la città fino a Segrate con l’animo tremebondo e gli occhi scintillanti – simili in tutto a quelli dell’impiegato Carabba della Morte in banca nei primi giorni di lavoro, sebbene senza dubbio l’immediato destino lavorativo fosse con me ben più generoso.

Una di quelle mattine fui convocata con gran solennità nell’ufficio di Renata, e mi fu annunciato il privilegio – e l’enorme responsabilità – di curare la redazione del nuovo libro di Giuseppe Pontiggia, reduce dal grande successo di Nati due volte e circondato da un’ammirazione e soprattutto da un affetto che, lo confesso, è raro percepire per un autore fra le pareti di una casa editrice – luogo dove gli scrittori li si cerca, cura, ama ma anche li si dissacra come a cercare un distacco, una sponda rispetto alle loro profondità e stranezze.

Ecco: fu così che, piena di emozione e convinta di trovarmi di fronte a un Grande infinitamente superiore alle umane debolezze, poco tempo dopo presi un taxi, tutta elegante, per trovarmi sotto la casa di via Farneti, dove il Maestro abitava: lo avrei conosciuto, avrei cercato di rendermi utile per dare forma alla raccolta di scritti, pensieri, aforismi destinata a prendere il titolo di Prima persona.

Attraversata l’ombra dell’androne, salite le scale scure, con Renata e Antonio fui accolta nell’appartamento del secondo piano, anch’esso avvolto da una fresca semioscurità (questo, scoprii in seguito, anche per proteggere gli amati libri e le preziose incisioni che coprivano le pareti). E lì, luminoso più del sole che annunciava l’estate dietro le nuvole di quel giorno ancora piovoso, caldo come solo l’amicizia può esserlo, trovai il sorriso di Peppo – anzi, del Peppo –, che, insieme a quello vibrante di Lucia, mi diede immediatamente la percezione di trovarmi in una dimensione unica, e inattesa. Sotto quello sguardo serissimo e divertito, serio senza malinconia, sentii ridicoli i miei abiti eleganti, totalmente vani e quasi impensabili gli orpelli della conversazione formale, e grande invece la reciproca curiosità.

Fu un primo colloquio affabile e allegro, tutti affondati nei grandi divani in mezzo ai libri. E fu solo il primo, perché altri ne seguirono, lavorando con Peppo e Lucia sulle bozze seduti al tavolo di cucina, mentre Andrea passava lanciando al padre le sue battute folgoranti, la flemmatica colf eritrea metteva a posto la spesa, il caffè gorgogliava sul fornello e Peppo ogni tanto alzava gli occhi a commentare sornione la vita del microcosmo fra i caseggiati al di là della finestra aperta.

Fu certo questa familiarità avvolgente a colpirmi, e fu prima ancora la enorme capacità di attenzione e di ascolto a me rivolta a darmi la misura incommensurabile dell’umanità di Peppo: mi interrogava, mi lasciava parlare, si interessava sul serio al mio piccolo percorso di vita, ai miei desideri e progetti, in un modo che mai mi era accaduto, specie con una persona tanto più anziana – specie con uno scrittore…

Ma la cosa più straordinaria fu scoprire che tutto questo nasceva da una profonda onestà – quell’onestà innanzitutto con se stessi che deriva dal conoscere l’infinita fallibilità, e limitatezza, e ambiguità, anche, dell’animo umano: che non negano, anzi generano a volte nel modo più sublime, la sua bellezza. Un sentimento “scorretto”, un gesto contraddittorio, un corpo che non risponde ai desideri e agli intenti, una frase squilibrata: tutto, passato al vaglio dell’ironia buona del Peppo, ritrovava un senso e il suo giusto peso.

L’umiltà con cui vagliava le mie timide, ma forse a tratti ostinate proposte di correzione, la fatica felice con cui – spesso grazie all’aiuto vigile di Lucia – trovava la parola mancante, con cui affinava la lama dei suoi ragionamenti, fecero sì che le pagine su cui lavoravamo quell’estate trovassero lo splendore quieto che nasce dall’intelligenza delle umane debolezze e dalla capacità di sorridere della loro imperfetta sintassi – concedendole così l’incantesimo di tramutarsi sulla carta in uno stile impeccabilmente increspato.

Non avevo mai incontrato uno scrittore tanto consapevole dei propri fini e dei propri mezzi e al tempo stesso tanto pronto a mettersi in discussione. Ogni osservazione, da chiunque provenisse, meritava attenzione, non foss’altro che per il tempo necessario a liquidarla con un sorriso liberatorio, per passare oltre. L’ombra del dubbio, della sofferenza, appariva solo di fronte al rischio di tradire con le parole la verità del pensiero – verità sempre pronta a ridefinirsi, ma tenuta a una assoluta fedeltà a se stessa.

E tutto questo seguendo, credo, uno degli impegni che Peppo considerava fondamentali, anche quando scriveva un pezzo per un giornale: “Io temo che occorra rivalutare la categoria dell’utile, intendo l’utile del lettore. Quante volte l’abbiamo disprezzata, vittime di un idealismo che ha introdotto troppe maiuscole nella nostra mente, anzi nel nostro Spirito” scriveva in quel libro. “L’utile del lettore e l’utile dell’artista idealmente convergono. Ma perché l’intersezione sia feconda occorre che l’artista abbia ambizione, pazienza, generosità, fantasia e una strana tendenza a dire più cose contemporaneamente…”

Ambizione, pazienza, generosità: mi ha aiutato lui stesso a trovare le parole per dire quale inimitabile miscela vedevo agire sotto i miei occhi inesperti. E tutto questo, tutto questo amore per le parole e i loro sensi, pur senza nutrire una convinzione superba del loro potere: “Crediamo che vivere sia comunicare, che amare sia condividere un codice, che il mondo sia un sistema di segni di cui continuiamo a decifrare i significati, tranne l’ultimo”, scriveva: ma sapeva che in fondo si tratta di un pensiero “rassicurante, sedativo”. Sapeva quante cose è impossibile dire, eppure non rinunciava a cercarle, e a cercare di trasmetterle.

La sua grande generosità con tutti, grandi e piccini del mondo, io penso nasca da questo: dal sapere che fra due uomini, in ogni momento, può trascorrere una comunicazione unica e speciale, vera nel preciso momento del suo avvenire, onestissima nelle sue debolezze e nelle sue dolci disonestà, grande nei suoi silenzi e nelle sue ruvide pagine da voltare.

La letteratura di Giuseppe Pontiggia e la sua umanità profonda e senza arretramenti hanno cambiato per sempre il mio modo di guardare la vita, e me stessa. E questo è il dono più grande che si possa ricevere.
“Una statua di giada di Iside ci appare come una presenza inesplicabile. Gli uomini che l’hanno creata credevano. Noi in che cosa crediamo? È questo ciò che di importante ci dice la statua. Anzi, non ce lo dice. Ce lo comunica in silenzio. No, neanche. La statua è questo.”

Giulia Ichino
Editor Mondadori

Post scriptum: ho scritto queste righe incomplete e claudicanti in una sera quasi d’estate, seduta a un’ampia e solida scrivania nera che è ora il tavolo di lavoro per mio marito e per me. Questa scrivania viene dall’appartamento del piano terra di via Farneti, estensione della tentacolare biblioteca del Peppo e “covo” appartato per lui, Lucia e Andrea. È stata Lucia a donarmi questa scrivania qualche anno fa, dicendo che il Peppo avrebbe certo condiviso la sua idea. Questa scrivania è per me molto più che una scrivania.


BOSIO: Le parole di Peppo

Solo una frase, lasciando che sia lui a parlare: "L’etica del romanzo è un’etica problematica, allusiva, centrifuga, che ha radici nel passato, ma si ramifica nel futuro imprevedibile del testo. La sua insopprimibile verità umana è il suo contributo più importante. Potrà apparire cinica, negativa, tragica, disperata. Ma l’occhio che guarda il male è più prezioso di quello che si chiude. E cinico è in realtà chi dispera tanto dell’uomo da ingannarlo con le illusioni. Per questo l’etica è il fondamento dell’estetica".

Laura Bosio
Scrittrice, editor Guanda


RUOZZI: Pontiggia e Guicciardini, talenti di realismo e brevità

Non è un ricordo, ma un piccolo approfondimento della sua opera, alla quale sono sempre profondamente-intimamente grato.

Della essenzialmente contraddittoria lezione del Francesco Guicciardini dei Ricordi Giuseppe Pontiggia colse subito l’aspetto non contraddittorio. Quello dello stile. (...) Pontiggia si concentra come di consueto sulla lingua, in cui ritrova i segni della civiltà, convinto dell’idea che «Ogni parola è un mondo e non ci si può permettere distrazioni» (Il giocatore invisibile, 1978) . Di Guicciardini egli coglie l’immediata e impareggiabile lezione di stile, che sulla traccia dell’etimologia latina è lezione di penetrazione nel cuore dell’uomo attraverso le parole che pronuncia (...).
L’attenzione al particolare assume un rilievo morale fondamentale, perché significa non trascurare nulla e non lasciare niente di intentato, ma soffermarsi su ogni cosa anche minima e apparentemente priva di interesse, perché possibile fonte di eventi sorprendenti. (link esterno)

Gino Ruozzi
Italianista, Università di Bologna: link esterno


CARICATO: Un sorriso spontaneo e mai ingenuo

L’ho ribadito in più occasioni: Giuseppe Pontiggia è stato per me padre e madre insieme, oltre che maestro. La sua presenza rappresentava un motivo di conforto, con quel sorriso accogliente che rincuorava e metteva pace ad ogni mia inquietudine.

Quando si è ancora poco più che ragazzi, in trasferta a Milano per studi, provenienti dalla lontana provincia leccese, si crede che i valori siano l’unico carburante in grado di muovere il mondo. La consapevolezza che tutto sia invece reso insulso dalla corruzione dei sentimenti umani, e che ogni buona intenzione serva a ben poco per risolvere i grandi mali della società, mi ha consegnato con larga fiducia tra le braccia di Giuseppe Pontiggia, in seguito diventato anche per me il Peppo.

Lui acquietava gli animi, da grande saggio qual era, senza mai forzare la mia natura, incline per vocazione all’elemento tragico della vita.
Le mie letture erano costituite da testi di Nietzsche, Cioran, Unamuno, tanto per fare alcuni nomi, e non concedevo sconti.

Ho sempre considerato l’essere umano un disastroso guastatore di equilibri, ma con Peppo, a furia di frequentarlo, ho invece smussato le mie irruenze, sia letterarie che filosofiche, ritrovando quel sorriso che in lui era così spontaneo e mai ingenuo, nonostante egli abbia avuto più di un’occasione per essere frastornato dagli eventi della vita.

A lui debbo l’ammorbidimento di certe mie incrostazioni, con grande beneficio per il mio lavoro e per la mia stessa vita. Ho cambiato l’approccio con le cose e le persone, acquisendo una linea di condotta ferrea e sempre fedele al richiamo etico e alla denuncia delle ingiustizie: “sarai il testimone della civiltà rurale che non vuole rinunciare alla propria identità” mi disse, rincuorandomi, qualche mese prima di morire.

Mi chiamava il “Papa dell’olio”, per la mia competenza e passione in materia di oli di oliva; ed era affascinato dai miei studi di teologia, tanto che molti dei nostri ragionamenti vertevano su Dio e sull’idea che noi abbiamo del sacro.
A lui debbo l’incoraggiamento che mi ha portato a scrivere e pubblicare il romanzo L’olio della conversione. E così, molto egoisticamente, posso dire che mi manca la sua presenza vigile, con i suoi consigli formulati alla perfezione sulla base delle mie personali esigenze e aspettative. Mi mancano le sue rassicurazioni e, con tutta onestà, mi sento davvero orfano di un maestro ch’è stato padre e madre insieme, elemento di forza e dolcezza.

Nessun altro potrà sostituire, nel mio caso, la sua presenza. L’unico conforto che mi resta, oltre che i molti ricordi che ho di lui, i libri che recano il segno della sua indelebile impronta.


Luigi Caricato
Scrittore e giornalista: link esterno


CUCCHI: La sapienza, l'energia e l'aperto sorriso

Ricordo benissimo il mio primo incontro con Giuseppe Pontiggia, con il nostro amabile e amato Peppo. Non eravamo a Milano, ma a Firenze, in un albergo, e mentre gli stringevo la mano ero emozionato, eppure mi sentivo tranquillo, a casa. Voglio dire che l’energia e l’aperto sorriso, il suo modo di essere accogliente e disponibile mettevano subito chiunque a proprio agio.

Era il ’74, e negli anni successivi ci siamo poi visti spesso e conosciuti bene. Io ne ammiravo le molte qualità e i diversi talenti; ne ammiravo la sapienza. Ne ho ammirato e ne ammiro l’opera narrativa, naturalmente, nella quale la limpidezza classica della lingua è di sicuro un modello, un esempio da seguire.

Anche per i poeti. Perché l’equilibrio impeccabile, il senso della parola (l’amore, per la parola), il buon gusto e l’attenzione al dettaglio sono in lui sempre presenti; lo sono nell’opera, certo, ma anche lo erano nel parlare. Pontiggia sapeva che ognuno è sempre responsabile di ciò che dice e di come lo dice; delle parole che pronuncia, insomma.

Un altro aspetto singolare e importante della sua personalità culturale è stato nella capacità di apprezzare e amare sia la narrativa che la poesia. Uno dei pochi narratori in grado di essere anche un ottimo e assiduo lettore di poesia, un critico, anche se non abituale, di poesia. E poi l’equilibrio intellettuale e la grande curiosità vitale gli avevano permesso di essere insieme innamorato dei classici e attento ai fenomeni dell’avanguardia, fino a sfiorarla, da giovane. Sapeva far coesistere, insomma, passioni e opzioni culturali anche molto diverse.

Ho detto che l’ho conosciuto nel ’74, ma proprio mentre scrivo mi viene in mente che il suo nome mi era già noto da molto tempo prima, dall’Università, quando un mio compagno di studi me ne aveva parlato, perché avrebbe voluto laurearsi su di lui già allora. Aveva letto L’arte della fuga e se ne era innamorato. Ecco: un libro che è al tempo stesso prosa narrativa e poesia. Qualcosa a cui dovremmo ritornare: un libro che oltrepassa i generi ... E in questa direzione è forse il destino stesso, il futuro – mi capita di pensare sempre più spesso – della creazione letteraria.

Maurizio Cucchi
Poeta: link esterno


LOTITO: Semplicemente vicini di cuore

Stavo per salutarlo, quando Peppo cacciò le mani in tasca e, con tutta la sua stazza, sembrò impedirmi di andare oltre. Finiva spesso così: al momento del congedo nella sua abitazione in via Farneti, si apriva lo spazio delle confidenze letterarie.
Già da tempo il nostro rapporto aveva smesso i panni finto-amichevoli che lo scrittore e il giornalista volentieri indossano nelle interviste: un artifizio per aiutarsi l’uno l’altro ad apparire meno diffidenti. Peppo ed io (ecco: quel vezzo del nomignolo Peppo, molte volte sbandierato da semplici conoscenti per poterne vantare l’amicizia, ero riuscito a tenerlo a bada per un pezzo) ci sentivamo semplicemente vicini di cuore, quindi probabilmente amici.
In piedi, allora: tra il soggiorno e l’ingresso, sotto i celebri scaffali piegati dal peso dei libri, alla luce dorata della finestra legata a piombo.
«Sto scrivendo qualcosa di particolare» disse lui. «Un romanzo che non è proprio un romanzo, ma molto difficile e delicato».
Mi stava parlando di Nati due volte, il libro che avrebbe poi vinto il Premio Campiello.
Non fu necessario che lo incalzassi: la nostra intervista aveva riguardato Milano e i suoi immutabili dilemmi, e ora potevamo liberamente discorrere di letteratura.
«È un libro sulla disabilità» riprese. «Un argomento di solito trattato in chiave pietistica. Io vorrei rappresentarlo nei suoi aspetti quotidiani, che spesso rivelano momenti di umana leggerezza e anche di ironia».
E di quella «umana leggerezza» fece alcuni esempi. Illuminanti, se è il caso di dirlo.
«Peppo,» gli dissi banalmente emozionato «un libro così non l'ha fatto nessuno. Sarà prezioso per tutti».
Lui sorrise: «Sono contento che ti piaccia, ci sto lavorando da tempo».
Come sia andata con Nati due volte, lo abbiamo detto. Ma il ricordo di quella confidenza non può non rappresentare per me una sorta di specialissima dedica.
Quando su una vecchia copia del “Corriere” lessi un suo pensiero sulla fenomenologia della scrivania, per così dire, non persi tempo: lo ritagliai e lo infilai sotto il vetro del mio tavolo da lavoro. È questo: «Sogno di avere la scrivania sgombra. Quando ci riuscirò, sono convinto che potrò fare grandi cose». Un paradosso, nel quale continuo a leggere una sorridente allusione di verità: una qualsiasi impresa non può realizzarsi senza la rimozione di uno o più ostacoli, la cui natura non è poi così importante. Ma un paradosso vive nella stessa straordinaria grandezza di Giuseppe Pontiggia, e si manifesta propriamente nella lettura delle sue opere, quando si ha l’impressione che egli stia solamente “provando” a scrivere, talmente articolata – anche qui esaltiamo il paradosso – è la naturalezza del suo universo linguistico.

Il 4 agosto 2001 – era un sabato – lo chiamai dalla redazione del “Giorno” per una delle demenziali esigenze giornalistiche che ritornano ineluttabili nei mesi estivi (“Come si arrangiano in una domenica di agosto gli intellettuali che restano soli in citta”).
Peppo mi prese molto sul serio, e dopo avermi informato di essersi alzato alle tre di notte, complice il caldo, per seguire in televisione la maratona dei mondiali di atletica in Canada, elencò ogni momento della sua giornata solitaria, con la moglie Lucia e il figlio Andrea in vacanza all’Elba.
Gli piaceva, mi raccontò – come se io faticassi a immaginarlo –, mettere a posto i libri: «Non si creda che sia facile: sistemare libri vuol dire trovare la collocazione giusta, trovare gli spazi, le convergenze, le analogie…». E se proprio fosse avanzato il tempo, quella domenica si sarebbe anche dedicato alla lettura dei giornali e a guardare altro sport (si diceva tifoso dell’Inter, ma quando gli sollecitavo un’opinione da inserire in un articolo, faceva considerazioni troppo ragionevoli per essere considerato un ultrà).
Per l’alimentazione non era preoccupato: «In questo periodo mi aiuta una donna eritrea molto simpatica e brava. Lei mi prepara il risotto, le polpette, frutta, formaggi, insalata. E io trovo tutto in frigorifero: devo solo mettere in tavola».
Mi confidò anche un segreto di sopravvivenza metropolitana: «Ho elaborato una strategia dietetica per chi lavora con la testa: non fare un pranzo completo a mezzogiorno, ma spezzettarlo in tre volte durante la mattinata, non appena si ha un po’ di appetito».
«E uscire, andare in giro?» gli chiesi.
Lui: «No, quelle cose no. Intanto, non guido. Poi, non mi piacerebbe andar fuori proprio di domenica».
«Certo» convenni. Troppo tardi mi ero ricordato del giudizio che Peppo, in un elzeviro, aveva a suo tempo espresso su questa forma contratta di avverbio: «Una espressione che usiamo quando la cosa è vaga».

Piero Lotito
Giornalista e scrittore





BIBLIOGRAFIA

Le opere di Giuseppe Pontiggia:

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La morte in banca, Quaderni del Verri 1959, nuova edizione Mondadori 1979, 1991;
L’arte della fuga, Adelphi 1968, nuova edizione 1990;
Il giocatore invisibile, Mondadori 1978;
Il raggio d’ombra, Mondadori 1983, nuova edizione 1988;
Il giardino delle Esperidi, Adelphi 1984;
La grande sera, Mondadori 1989, Premio Strega 1989, nuova edizione 1995;
Le sabbie immobili, Il Mulino, Premio satira Politica Forte dei Marmi 1992;
Vite di uomini non illustri, Mondadori 1993, Premio Super Flaiano 1994;
L’isola volante, Mondadori 1996, Premio Palazzo al Bosco 1997;
I contemporanei del futuro, Mondadori 1988, Premio Brancati e Premio Rhegium Julii 1999;
Nati due volte, Mondadori 2000, Premio Pen Club, Campiello e altri;
Prima persona, Mondadori 2002; nel 2002 ha ricevuto il Premio Nietzsche;
Opere, a cura e con un saggio di Daniela Marcheschi, i Meridiani, Mondadori 2004, postumo;
Il residence delle ombre cinesi, Mondadori 2004, postumo;
I classici in prima persona, Oscar Mondadori 2006, postumo.

Libri su Giuseppe Pontiggia
Daniela Marcheschi, Destino e sorpresa. Per Giuseppe Pontiggia con i suoi scritti sul "verri", Editrice Crt, Pistoia 2000
Alberto Albertini, Nascere due volte. Le straordinarie opportunità della scrittura di Giuseppe Pontiggia, Edizioni L'Obliquo, Brescia 2003