Cultura

Il modello del made in Italy? Non si cercano più nuovi sentieri. Si vive di rendita.

Un’ondata neonazionalista e autarchica sta prevalendo come reazione impaurita e rabbiosa al fenomeno della globalizzazione. La cultura della tipicità, da strumento di conoscenza delle distinzioni e della storia alimentare, è stata esasperata fino al punto di trasformarla in arma di difesa economica nella competizione globale

15 settembre 2012 | Alfonso Pascale

In una bella pagina della Storia d’Italia da lui curata nel 1989 per l’editore Bompiani, Ruggiero Romano annota le modalità con cui già in passato taluni primati del nostro Paese si affermano e crollano. Rileggendola in questi giorni, ne ho colto la sorprendente attualità se si raffrontano gli avvenimenti esaminati dallo storico con quanto avviene oggi nella nostra agricoltura.

Già a partire dal Medioevo l’Italia sa creare un proprio specifico modello culturale che investe molti campi, dalla pittura all’architettura, dall’urbanistica alla poesia. Ma di grande interesse appaiono la cucina e la moda, che dei diversi aspetti non sono affatto i meno importanti.

Per quanto riguarda la cucina, già nel XIV secolo si diffondono i primi ricettari, come il Libro della cocina di Anonimo toscano e il Libro per cuoco di Anonimo veneziano. Con tali testi si riprende finalmente una tradizione antica che si era interrotta: quella dei grandi eruditi romani, Varrone e Catone, Columella e Plinio, o di un cuoco di età imperiale, come Apicio, che avevano scritto pagine straordinarie sul fatto culinario.

Ma per i cuochi del Trecento la cucina è soltanto una pratica. E’ nel Quattrocento che diventa anche un’arte, come testimoniano il Libro de arte coquinaria di Maestro Martino, che sarà pubblicato per la prima volta solo nel 1966, e il trattato De honesta voluptate ac valetudine (Sull’onesto piacere e la buona salute) di un umanista finissimo, Bartolemeo Sacchi, detto il Platina, che s’ispira all’opera - all’epoca ancora inedita - del cuoco bergamasco e di cui viene in possesso.

Col Platina che, nel 1475, pubblica la sua opera nella lingua “colta”, il latino, il modello culinario italiano raggiunge una sua perfezione, dopo aver seguito un percorso parallelo a quello comunal-mercantile.

Ma da questo momento in poi le cose tendono a guastarsi perché l’intervento intellettuale sulla cucina diventa eccessivo, mentre si esaurisce quello pratico-creativo.

Ne sono una riprova altri titoli come questo: Libro novo nel qual s’insegna a far d’ogni sorte di vivanda secondo la diversità de i tempi et il modo d’ordinar banchetti, apparecchiar tavole, fornir palazzi et ornar camere per ogni gran Principe. La cucina diventa secondaria e prevale la presentazione, il banchetto e il lusso. Mentre il sapere gastronomico italiano “dal fornello alla tavola” s’impone anche fuori d’Italia, da noi non si creano più nuovi piatti, distinguendone i gusti, ma l’attenzione alla qualità si sposta sul servizio.

La tavola diventa pretesto per musica, danze, canto, teatro, giochi, conversazione. E in tutto questo la cucina resta quella che è: non evolve. I manuali culinari italiani del Seicento presentano una situazione stanca. Si vive di rendita, ritenendo di dover confermare quanto già inventato nel passato, senza dover far leva sulla creatività e l’innovazione.

E nel corso del Settecento il modello della cucina francese invaderà l’Italia: un anonimo trattato lo indicherà fin dal titolo, Il Cuoco piemontese perfezionato a Parigi (Torino, 1766).

Il modello italiano che aveva invaso la Francia si esaurisce: non solo ha termine la sua esportazione ma, in più, si avvia l’importazione del modello straniero, quello francese.

Per quanto concerne la moda, tra il Duecento e il Quattrocento è evidente l’influsso di elementi stranieri. Ma la novità è che tali elementi vengono assimilati in uno stile incontestabilmente italiano.

Nel XIII secolo si può fare un parallelo tra arte gotica coi suoi slanci verticali e la moda a forti scollature e gli strascichi puntuti. Allo stesso modo, nel Quattrocento, si ritrovano somiglianze tra un’architettura che volge di nuovo al classico e gli abiti sobri. I colori sono scelti in base a precisi valori simbolici. Si individuano peculiari modi di disporli: a scacchi, a onde, a strisce.

Dalla fine del Quattrocento la moda italiana giunge al suo esaurimento. Le vesti sono straordinariamente belle ma s’improntano all’astrazione, come mostrano chiaramente le opere di Rubens. E’ il lusso a prevalere, non solo perché si ricerca un abbigliamento sempre più costoso ma soprattutto perché invale l’abitudine di seguire i capricci della moda, che diventa estremamente mutevole.

Agli inizi del Seicento, le nostre bambole che erano servite per diffondere la moda italiana in altri paesi, non viaggiano più verso l’estero. Il centro della moda diventerà Parigi. Il nostro vocabolario sarà costretto ad assorbire termini stranieri. I nomi dei colori diverranno lilas, bleu-roi, souci… E si ordineranno tessuti a case produttrici di Lione chiedendo semplicemente dei “colori alla moda”. Ormai, non si saprà nemmeno più scegliere.

In siffatto declino che nel Seicento segna il nostro paese, cosa accomuna le vicende della cucina e della moda? Si può dire che un tratto simile è una certa esasperazione dei motivi che, in origine, ne avevano costituito la forza. L’abbigliamento si trasforma in tracotanza della moda. La cucina in “trionfo” culinario. Come del resto la cultura in generale diventa una cultura cortigiana.

Ci si adagia, ci si ripiega su se stessi. Si vive di rendita. Si mette in ammollo il cervello. Non si ricercano più nuovi sentieri. Si spegne ogni creatività.

Il modello italiano è ripreso fuori d’Italia, assorbito, assimilato, digerito fino a farne qualcosa di diverso che l’Italia del XVII secolo è costretto a importare.

Qualcosa del genere sta avvenendo oggi nella nostra agricoltura. Un’ondata neonazionalista e autarchica, da un decennio a questa parte, sta prevalendo come reazione impaurita e rabbiosa al fenomeno della globalizzazione. La cultura della tipicità, da strumento di conoscenza delle distinzioni e della storia alimentare, è stata esasperata fino al punto di trasformarla in arma di difesa economica nella competizione globale.

Proprio ora che gli scambi non solo economici sono diventati nel mondo più ampi e ramificati, stiamo rinunciando alla principale prerogativa che il nostro paese ha avuto in passato, soprattutto tra il Medioevo e il Rinascimento: quella di assimilare altre culture e ricrearle in modo così originale da farle apparire come se fossero sempre appartenute al nostro Dna.

Pensiamo di difendere la nostra cultura agricola e alimentare da quelle dei paesi emergenti con le leggi e i tribunali e non invece con l’innovazione, la ricerca scientifica, la creatività, il gusto di essere imitati per ricavarne la spinta a superare noi stessi.

 

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Alberto Guidorzi

01 ottobre 2012 ore 09:59

Pino
Non mi prenda per un disfattista

Sono consapevole che l'agricoltura italiana non può soddisfare i bisogni di 60 milioni di italiani, ma che se ne siano amputate anche le le potenzialità ne sono altrettanto certo.

Con la propaganda fasulla che fa la Coldiretti, Cia, Regioni, Ministero, giornali sodali al potere, si camuffa la realtà agricola italiana, che è disastrosa. Il consumatore infatti non si pone il problema e si evita di farglielo conoscere della effettiva nostra autosufficienza in cibo. Essa è a livelli tali che qualsiasi consumatore dovrebbe rimanerne spaventato. Solo con un movimento d'opinione favorevole potremo pensare di risollevare un po' le sorti della nostra agricoltura. Provi a chiedere ad un consumatore se conosce la sigla IGP o DOP.

Pino Doriguzzi

01 ottobre 2012 ore 09:39

Manca purtroppo un mio commento. Ad ogni modo, qui si fa confusione (ed è grave che qui la si faccia) tra mozzarelle e altri formaggi (non DOp) e formaggi DOP , i primi certamente prodotti con metà latte straniero (e non sempre si usa latte), i secondi invece assolutamente no.
Per i prosciutti è la stessa cosa, si confondono i DOP con i "nazionali". Se poi qualcuno truffa, ripeto è bene segnalarlo, ma dire che sono costretti a truffare in quanto non c'è abbastanza prodotto questo è PATETICO. Semplicemente non si vuole dare ai produttori il giusto prezzo del loro prodotto, e con questa scusa si adduce che è necessario fare le DOP con materia prima straniera. La bresaola (IGP si badi bene) ne è un tristissimo esempio oramai da decenni consolidato, mancando la volontà di creare (e pagare) una linea dedicata di bovini qui in italia (magri e con muscolatura coriacea) si è andati in brasile a "caccia" di zebù. Mi parlate di futuro e difesa dell'attività agricola in Italia, ma mi state solo portando esempi proprio sul come distruggerla.
Caro Guidorzi , legga bene, io non ho mai detto che dobbiamo essere autarchici, anzi ho affermato esattamente il contrario, io dico solo che è necessraio essere trasparenti di fronte ai consumatori, i quali poi sceglieranno il far loro. Quindi per iniziare è bene distinguere sulla provenienza della materia prima, io mi ritengo un consumatore sufficentemente maturo per decidere io cosa scegliere e non lo lascio certo fare a qualcun'altro che per gudagnare 1 soldo in più è diposto anche ad avvelenarmi.

Marco Felicani

28 settembre 2012 ore 22:45

Un'ultima nota, visti i tempi "OGM" che stiamo vivendo...
Magari avessimo solo la metà delle carni e del latte, per non parlare dell'ortofrutta, nei nostri prodotti agroalimentari trasformati; con tutto questo baillame pro/contro OGM ci stiamo dimenticando che cereali transgenici e loro derivati sono di libera importazione da almeno 20 anni e sono in mangimi, snacks, prodotti alimentari e chi più ne ha più ne metta!
Urge una decisa rivisitazione del sistema agricolo come auspicato dall'autore dell'articolo ma anche una decisa presa di coscienza che l'autarchia non è realizzata da decenni e non è neppure più concepibile oramai.

Alberto Guidorzi

28 settembre 2012 ore 19:52

Pino

La carne di bresaola è "made in Arghentina"

Basta parlare con i macellai che rifilano i prosciutti a Langhirano per sentirsi dire che molte cosce vengono dall'estero. La cosa mi è stata confermata non più tardi di 20 giorni fa, quando ho partecipato alla Fiera di Langhirano.

Certo io non controllo le bolle doganali, ma so che di merce per fare il Made in Italy non ne produciamo abbastanza. Guarda caso è proprio di questi giorni che le nostre esportazioni alimentari sono molto meno della Germania .

Sul latte poi non ne parliamo
Sulla pasta e sul pane pure
Non si crederà di dar da mangiare agli Italiani solo carne di chianina.

Alfonso Pascale

28 settembre 2012 ore 02:24

Vorrei dire a Pino Doriguzzi che ho solo ripetuto quello che già molti osservatori di settore rilevano da tempo. E cioè che il 40% del latte utilizzato per fare le nostre mozzarelle e i nostri formaggi viene da altri Paesi. Inoltre, la filiera suinicola in Italia è caratterizzata da allevamenti molto polverizzati, da una consistente importazione di cosce fresche e da una forte concentrazione di prosciuttifici nell’area Dop che offrono sia la tipologia di prosciutto certificato sia quella “unbranded”. Se due più due fa quattro…
Ma il dato più significativo è che per produrre salumi e formaggi importiamo il 95% della soia e oltre il 23% del mais. Ebbene, il solo costo dell'import di mais vale la metà dell'export di tutti i prodotti tipici (costituito per il 90% da formaggi e salumi). Solo noi italiani siamo capaci di fare questi miracoli...
Infine, la nostra pasta deve necessariamente essere fatta con grano canadese perché questo contiene una dose di glutine (una proteina essenziale per pastificare) che il nostro grano purtroppo non ha. E allora?

Pino Doriguzzi

26 settembre 2012 ore 15:18

Mi scuso per il ritardo, ma vorrei puntualizzare al sig. Pascale che se è a conoscenza di casi di utilizzo di latte estero per la produzione di Grana/Parmigiano o di suini stranieri per la produzione di Prosciutti DOC nazionali , di fare riferimento al più presto alla più vicina stazione dei carabinieri o, in mancanza, di rettificare quanto detto.
Il grano invece certamente nella pasta ve ne è assai poco di Italiano e magari fosse tutto Canadese, in ogni caso è proprio questo il punto, si sfrutta il nome e la tradizione italiana ma il mondo produttivo non vede che briciole.

Alberto Guidorzi

18 settembre 2012 ore 11:01

Pino.

Per tanto che aumenti il cibo, permanendo le regole sul commercio mondiale che ci siamo dati, certi terreni italiani messi in coltura in periodo dell'agricoltura di autoconsumo e poi abbandonati, non riusciranno mai a divenire competitivi in una agricoltura ormai passata nella fase agroindustriale. Ora io osservo che vi sono terreni, anche, in pianura padana che non saranno disponibili subito per approfittare delle fiammate di prezzi. Sono terreni inerbiti da piante d'importazione refrattarie a tutti i diserbi e con capacità di disseminazione enorme, 2000-3000 semi per pianta. Mi spiego cosa intendo per fiammate di prezzi. Il commercio mondiale delle derrate è fatto da circa il 20% della produzione globale il resto è autoconsumo, che comprende anche i contratti di fornitura di cibo pluriennali tra nazioni. Il mercato futuro delle derrate presenterà una tendenza all'aumento dei prezzi, ma periodicamente ci saranno fiammate in aumento dei corsi che si verificheranno tutte le volte che le scorte scenderanno sotto certi livelli a causa di annate particolarmente negative per la produzione in qualche "granaio". Sono queste fiammate che scombussolano i mercati interni del cibo e che favoriscono gli agricoltori professionali, ma per essere tali essi devono coltivare convenientemente il loro terreno tutti gli anni seguendo programmi razionali, ora in Italia di programmi razionali di coltivazione, anche tra agricoltori di professione ne vedo sempre meno. Faccio notare che agricoltori di professione non è sinonimo di agricoltori professionali.
Indipendentemente poi dal fatto che il territorio agricolo italiano non sarà mai capace di sfamare 60 milioni di abitanti.

Pino Doriguzzi

18 settembre 2012 ore 09:31

Io credo sia necessario distinguere l'autarchia agricola dalla tutela dell'origine del prodotto che ritengo siano 2 aspetti alquanto diversi. La prima, evidentemente irraggiungibile ed antistorica, la seconda io la ritengo alla stregua della difesa di un marchio o di un brevetto (come Apple contro Samsung per intendersi).
Ciò non esclude la rielaborazione delle nuove culture culinarie e delle cucine che i nostri nuovi concittadini ci stanno portando, la differenza sarà tutta nella valorizzazione delle materie prime, che tra l'altro valorizzano anche un sistema di controllo sanitario, certo migliorabile, ma che in giro per il mondo sinceramente non ho visto di altrettanta qualità. Infine un commento sulla presunta penuria di produzione di cibo in Italia, che è evidente che potrà coinvolgere quei terreni ora abbandonati nel momento in cui sarà di nuovo redditizia, ovvero se il prezzo del cibo aumenterà in tutto il globo o se anche la valorizzazione delle nostre produzioni porterà ad un aumento dei consumi e delle esportazioni a prezzi interessanti per i produttori.

Vincenzo Lo Scalzo

17 settembre 2012 ore 09:31

Alfonso, il sogno è realizzabile. Per diventare realtà andrebbe... messo all'ordine del giorno da chi ne gestisce il diritto e la facoltà di inserirlo materialmente in GU! Auguro che l'iniziativa non venga anche presa anche da chi si oppone sempre, per partito preso e un ruolo di volo di disturbo basso, anche internazionale, e che mira solo all'incremento di entalpia della società, cioè del caos, per sfruttarne una temporanea disponibilità di potere e mezzi... Il percorso della ricostruzione del progetto è sempre più complesso, per mantenere salva la sua spontanea credibilità e non disperderne il valore in labirinti inconsistenti e solo capaci di provocare risvegli ossessivi di incertezze.

L'ottimismo diventa necessità.

Alfonso Pascale

17 settembre 2012 ore 01:40

Sono vivamente grato ai lettori per gli ulteriori commenti.

A Marco Felicani vorrei dire che giocare in difesa non è sempre la scelta obbligata, anche se l’agricoltura si trova purtroppo nella situazione disastrosa descrittaci da Alberto. Potremmo, in realtà, fare come sistema-paese un gioco diverso. Ma come? Elaborando una strategia di dimensione europea capace di convogliare il consenso di una parte significativa dei nostri interlocutori. Per farlo – questo è il punto! - dovremmo essere in grado di farci carico dei modi di pensare e degli interessi degli altri, attenuando la difesa strenua di quello che noi riteniamo siano – e non è detto che lo siano davvero - i nostri interessi nazionali.

Non sto proponendo un atteggiamento di arrendevolezza (lo dico a Rinaldo Marcaccio, di cui comprendo bene le preoccupazioni), ma una più spiccata capacità di fare sintesi tra approcci diversi e sensibilità differenti, con spirito aperto a cogliere il buono che c’è negli altri.

A questo proposito trovo giuste le indicazioni di Marco: per le nostre tipicità lavoriamo a livello di filiere per superare le inefficienze; ma per i settori dove necessariamente dobbiamo interagire con gli operatori di altri paesi, riflettiamo bene sul da farsi.

Mi permettete di raccontare qui un mio sogno?

Sogno che da domani presso il ministero delle politiche agricole e gli assessorati regionali all’agricoltura si aprano continuamente tavoli di confronto tra istituzioni, operatori economici, ricercatori e società civile organizzata dell’Italia e di altri paesi; e, insieme, costruiamo progetti condivisi, trasformando l’idea angosciosa di una competizione posizionale (c’è chi vince e c’è chi perde, che porta necessariamente alla distruzione totale) nell’idea più dolce, che prevede una competizione collaborativa (dove i soggetti dello scambio economico condividono e sono partecipi del medesimo progetto).

Mi rendo conto che è una rivoluzione copernicana, un mutamento di prospettiva, oltre che di cultura economica. Ma non è compito delle istituzioni quello di aprire nuovi percorsi? E se non lo fanno le istituzioni perché non provare a farlo direttamente noi, come società civile organizzata?

Ecco allora il contributo di persone straordinarie come Vincenzo Lo Scalzo, che mettono generosamente a disposizione la propria esperienza, la rete di relazioni che hanno costruito in tanti anni, per poter avviare concretamente iniziative e uscire dalla situazione di stallo in cui ci troviamo.

Grazie a “Teatro Naturale” e al suo Direttore sono certo che potremmo sperimentare percorsi concreti per passare dalla teoria ai fatti.

Vincenzo Lo Scalzo

16 settembre 2012 ore 18:03

Alfonso, il tema è oltremodo complesso e non sono stati nemmeno sufficienti i dibattiti finora fatti tra studiosi, economisti, storici, agronomi, chimici, giornalisti per cercare di imbrigliare il dibattito con l'aiuto dei fattori positivi per protagonismo italiano riconosciuti e riconoscibili e la continuita e discontinuità culturale che li sovrasta; dall'altra parte con il riconoscimento e l'elencazione dei fattori negativi per la sua agricoltura e la verifica della loro verità ed affidabilità.

Un processo complesso, che potrebbe essere affrontato in occasione della prossima edizione di Olio Oliva Festival che Luigi si sta preparando ad affrontare e che troverebbe un tema-contenitore in cui si possa inserire indipendente - per la sua parte di storia ed esperienza sui mercati - la particolare vasta esperienza e storia di fatti, saperi e cultura dell'olio d'oliva.

Il parallelo presentato con il Made in del tessile e della moda è eccezionalmente vero, gli obiettivi di stimolare l'interesse non solo dell'opinione pubblica italiana ma di quella internazionale della Comunità Europea sono nello stesso quadro d'importanza per il protagonismo italiano. Poco fa ne ricordavo e stimolavo a riconoscerne la potenziale sinergia ad un membro chiave della relativa associazione di progetto, ex Contadini del Tessile confluita in associazione onlus Reparto di Produzione, che raccoglie le imprese interessate al Made in Italy giunto altrettanto alla prima fase delle approvazioni di programma strategico del settore alla Camera.

Bruxelles dovrà seguire, importante avere costituito una piattaforma credibile e progettare una confluenza di alleanze di peso.

L'unico progetto di studio approfondito e dettagliato è stato portato quasi a termine attraverso la collana Coltura e Cultura, per ora in ben 17 o 18 volumi, che costituiscono una base di immenso valore per una seria meditazione sul passato, presente e futuro per 3/4 - se non più dei protagonsti delle risorse di cibo nazionali. Si tratta di un'opera a cui contribuiscono centinaia di autori ed esperti sulla cui base è possibile ipotizzare la scelta di una strategia italiana, presentabile a qualsiasi autorità o stakeholder.

Dibattere in tavole rotonde di intelligente progetto è fare un grosso passo avanti, per raggiungere la linea di partenza e validare il potenziale di forza della strategia da sostenere, senza bastoni interni di disturbo nella gara planetaria del Made in Italy. Non è aria fritta, ma la base del "saper fare" e del "fare".

Grazie Alfonso. Parlare seriamente e con competenza non costa molto, spiegarlo ai comunicatori è altrettanto essenziale quanto spiegarlo ai mercati e ai concorrenti. La conclusione a cui mi associo è perfetta: "Ma quando andiamo agli incontri dovremmo avere delle buone idee in testa e mettere a disposizione il nostro "saper fare" (come dice Alberto) perché è questo il succo dell'italianità che gli altri, ancora per un po', sono disposti a riconoscerci."

Alberto Guidorzi

16 settembre 2012 ore 15:36

Alfonso ed altri interlocutori.

Tengo a precisare che quello che ho affermato nel mio primo commento alla rubrica e gentilmente riportato da Alfonso nel suo commento, non vuole essere disfattismo o anti-nazionalismo. Voglio solo non illudere gli italiani sulla situazione disastrosa della nostra agricoltura e che è sottaciuta anzi falsata da tutti. Gli italiani devono sapere che la nostra agricoltura è in uno stato comatoso e che di fronte ad una probabile penuria di cibo a livello internazionale pagheremo care le nostre illusioni. Se avremo soldi per acquistare cibo più caro la passeremo liscia, ma se non li avremo dovremo dimenticarci le specialità e selezionare le nostre spese.
Sono cose che dico da molto, la mia settennale collaborazione con la rivista Spazio Rurale (ora chiuso in quanto non coerente con il Minculpop dell’agricoltura italiana) è stata improntata a denunciare queste cose.
Ne volete un esempio recentissimo? Si sta parlando di fine della cementificazione della superficie agricola e per giustificare si dice che avevamo 18 milioni di ettari di SAU (Superficie Agricola Utile) ed ora ci siamo ridotti a un po’ più di 12 milioni, ma è solo una denuncia parziale perché la nostra situazione è molto più grave. I 18 milioni si ettari sono un dato del 1948, ma quanta di questa superficie pur non essendo stata cementificata è veramente produttiva con i sistemi agricoli moderni? Molto meno e quindi i 12 milioni sono fasulli. Molti terreni che i nostri contadini dell’Appennino coltivavano nei primi anni 1950 (che mio padre mi diceva razzolati da galline con impianto frenante), credete che ci diano o possano darci ancora cibo?
Vi do un altro dato che non è statistico, ma vissuto. Il mio lavoro è stato per 40 anni in bieticoltura e sistematicamente visitavo due volte all’anno tutte le zone bieticole italiane, ora per coltivare bietole bene, cioè sfruttare tutte le potenzialità che il nostro ambiente pedoclimatico ci offre ( condizioni che non sono mai state molto adatte alla bietola), occorre far parte alla categoria degli agricoltori all’avanguardia e un agricoltore all’avanguardia lo è non solo sulla bietola, ma su tutte le coltivazioni che pratica. Ebbene sapete quanti bieticoltori erano ascrivibili a questa categoria, cioè che producevano 100 q /ha di saccarosio? Non più del 15%, e la conferma la troviamo che appena hanno potuto smettere di coltivare bietole il restante 85% ha smesso. L’unico incentivo che fa rimanere agricoltore (moltissimi nominalmente) è il valore fondiario che in Italia è esorbitante e fuori di qualsiasi legame con il reddito che si ricava. Ora è noto a tutti quelli che fanno gli imprenditori agricoli (veri) e che hanno qualche infarinatura di economia agricola, che il valore fondiario non deve essere contabilizzato perché è strumento di lavoro. Al limite il vero imprenditore agricolo non dovrebbe acquistare il terreno su cui intraprende, in quanto i capitali che detiene devono servirgli per innovare. E’ noto anche che dopo tre passaggi di eredità la terra è ricomprata.


Rinaldo Marcaccio

16 settembre 2012 ore 15:16

Credo che le puntualizzazioni di Alfonso Pascale per quanto legittime, sia possibile non condividerle.
Mi sembra che Marco Feliciani abbia già messo dei puntini sulle i.
Io mi limito semplicemente a dire che in Europa non partiamo tutti dallo stesso livello in materia di agricoltura, cultura alimentare e tipicità.
Posto ciò, non vedo perchè debba essere l'Italia a dover rinunciare per mero spirito comunitario alle posizioni d'avanguardia finora acquisite ed appiattirsi sulle posizioni di altri, quando invece sarebbe ben auspicabile e possibile che si provi in sede comunitaria a percorrere il tragitto esattamente inverso.

Marco Felicani

16 settembre 2012 ore 11:02

...omissis...
"Dovremmo, invece, sforzarci di dialogare costantemente con gli altri paesi per definire regole comuni. Altrimenti queste leggi servono solo per fare campagne elettorali a buon mercato, ma non hanno alcun valore perchè sono inapplicabili; e le norme che si dovrebbero decidere nelle sedi europee non si approvano per ritorsione nei nostri confronti. A discapito dei produttori e dei consumatori."
...omissis...
Credo che non tutti apprezzeranno questa onestà, infatti pochi sanno che tutte le iniziative sbandierate in sede nazionale (e date come "cosa fatta") in realtà debbono passare attraverso le forche caudine dell'approvazione europea e lì,come riporta lei, vuoi per ritorsione vuoi per mancanza d'autorevolezza della politica italiana soccombiamo spesso e volentieri!
Vien spontaneo chiedersi se i "rigurgiti nazionalisti" in realtà non siano altro che un "giocare in difesa" stante la quasi impossibilità a fare altro...
Tristemente deleterio tanto quanto nascondere il fatto che " Questi prodotti rappresentano solo il 4% del fatturato alimentare italiano e il 6% dell’export. Se mettiamo insieme Parmigiano reggiano, Grana padano, i due prosciutti S. Daniele e Parma e la mozzarella di bufala campana, siamo già al 70% del valore del tipico alla produzione, al consumo e all’esportazione. 5 prodotti soltanto.E gli altri 178 cosa rappresentano? Siamo coscienti che il Parmigiano viene prodotto (in parte) con latte estero; il prosciutto con maiali olandesi; gli animali da cui ricaviamo salumi e formaggi sono alimentati con soia e mais d’importazione (per gran parte ogm; la nostra pasta è prodotta in larga parte con grano canadese?"
Vengono spontanee 2 considerazioni:
-la prima è che se facciamo IGP/DOP/etc con materi prime straniere abbiamo un problema di fondo enorme legato all'ipocrisia di disciplinari, controlli e varie ed eventuali ma sarebbe motivo per farci una seria riflessione posto che, oltre ad alimentare inutili campanilismi e sprechi di denaro pubblico, rappresentano altrettante "occasioni perse" di valorizzazione dei prodotti d'un territorio;
-la seconda è che ciò dovrebbe essere occasione per razionalizzare e rafforzare le singole filiere produttive (ove oggi alcuni soggetti "gozzovigliano come maiali al trogolo" sulle spalle della produzione) nell'ottica del "made in ..." che sarà oggetto delle prossime revisioni degli accordi del WTO (se e quando avremo l'autorevolezza d'imporci è un altro discorso problematico) a sostituzione delle denominazioni che conosciamo oggi.
Premesso che sono un sostenitore della ricerca in agricoltura a tutto tondo senza preclusioni ma senza condividere gli eccessi delle battaglie pro/contro OGM, ad esempio, dove s'è detto di tutto ed il suo contrario!
Dovremmo anche capire il fine della collaborazione con la filiera d'altri paesi: importare nuove varietà, metodi di coltivazione e di trasformazione?
O esportare metodi,macchine e procedimenti?
Poichè credo che un conto sia la commercializzazione d'un prodotto ed un altro la sua delocalizzazione...
L'industria automobilistica italiana ci ha insegnato la parte peggiore della questione: denaro pubblico e sovvenzioni col "ricatto dei posti di lavoro" (ricatto che in agricoltura non possiamo porre in atto, forse l'agroindustria) per produrre, si sono fatte joint-venture ed accordi in paesi esteri, si è delocalizzata la produzione ed ora "il management scopre che non si è comunque competitivi" mentre è di oggi che fu la sua miopia, e non la mancanza d'occasioni, a precluderle sviluppo e risultati (articolo su la Repubblica di oggi: già nel 1982 FIAT ritenne non strategico espandersi nei mercati asiatici quando delegati cinesi,recatisi in missione a Torino, furono allontanati con pressapoco la seguente risposta:"non avete le strade perchè vorreste fare auto?!").
Poichè gli accordi di libero scambio nel bacino del Mediterraneo (come il "Corridoio Verde" vanno nella direzione di "delocalizzare la produzione agricola" nei paesi a più basso costo (per "aiutarli a svilupparsi" si dice) mentre danno il via libera all'export dell'industria manifatturiera mi sovvien d'affermare che non dovrebbero essere questi gli accordi tra paesi in materia d'agricoltura...
Allora mi chiedo, posto che non sia tardi, abbiamo un diverso management ?
Posto che ricerca scientifica e sviluppo di nuovi prodotti si potrebbero fare in Italia quali altre finalità potremmo avere oltre la ricerca di nuovi mercati?
Son anche questi gli angosciosi dubbi che suscitano le intelligenti riflessioni, come la sua, sulla necessaria globalizzazione degli scenari...

Alfonso Pascale

16 settembre 2012 ore 01:56

Grazie di cuore per i preziosi commenti che mi permettono di precisare meglio il mio pensiero.

Quando parlo di neonazionalismo autarchico alludo all’idea di una sorta di autosufficienza: possiamo (dobbiamo) farcela da soli perché il mondo fuori ci è nemico; dunque è necessario portare avanti i nostri prodotti e rifiutare quelli stranieri. Questa idea porta ad escludere ogni collaborazione con le agricolture di altri paesi, considerate come nemiche da combattere, e spinge a riprenderci quella sovranità nazionale che un tempo eravamo disposti a sacrificare per l’obiettivo di un ideale collettivo europeo.

Ci siamo convinti di poter essere autosufficienti guardando i dati sulle denominazioni d’origine: su 853 denominazioni europee, 182 sono italiane, 166 francesi, gli altri seguono. Ma è davvero un primato? Guardiamo le cifre. Questi prodotti rappresentano solo il 4% del fatturato alimentare italiano e il 6% dell’export. Se mettiamo insieme Parmigiano reggiano, Grana padano, i due prosciutti S. Daniele e Parma e la mozzarella di bufala campana, siamo già al 70% del valore del tipico alla produzione, al consumo e all’esportazione. 5 prodotti soltanto.E gli altri 178 cosa rappresentano? Siamo coscienti che il Parmigiano viene prodotto (in parte) con latte estero; il prosciutto con maiali olandesi; gli animali da cui ricaviamo salumi e formaggi sono alimentati con soia e mais d’importazione (per gran parte ogm; la nostra pasta è prodotta in larga parte con grano canadese?

Eppure, costringiamo il Parlamento a fare leggi cosiddette “manifesti politici” anziché affrontare i nodi che impediscono al nostro sistema agroalimentare di essere competitivo.
Credo che sia improprio approvare leggi nazionali (come quella sull’indicazione obbligatoria del luogo d’origine nell’etichettatura dei prodotti alimentari) come strumenti di pressione per condizionare il procedimento legislativo europeo.
Ritengo ingiusto che le nostre istituzioni impediscano l'applicazione di norme europee in materia di ogm.
Penso che sia un errore legiferare per conto nostro sulla percentuale di achil esteri nell’olio d’oliva.
Non è il modo più sensato per costruire regole condivise a livello europeo e internazionale.
Dovremmo, invece, sforzarci di dialogare costantemente con gli altri paesi per definire regole comuni. Altrimenti queste leggi servono solo per fare campagne elettorali a buon mercato, ma non hanno alcun valore perchè sono inapplicabili; e le norme che si dovrebbero decidere nelle sedi europee non si approvano per ritorsione nei nostri confronti. A discapito dei produttori e dei consumatori.

Ma al di là di questo tema per nulla secondario, mi preme sottolineare l’altro problema: l’italianità non è soltanto la conservazione e la replica all’infinito di quello che hanno fatto le generazioni che ci hanno preceduto, ma soprattutto è la capacità d’inventiva e d’innovazione che siamo in grado di produrre ora, specie assimilando altre culture e lasciandoci contaminare da queste.
Tale idea comporta la volontà e la fatica di collaborare con gli agricoltori e gli altri operatori della filiera di altri paesi e con il mondo della ricerca. Comporta guardare alla globalizzazione non tanto come un rischio, ma come una grande opportunità.

Non ho nulla contro il Km 0. Lo considero un modello come un altro. Tutti i modelli di produzione e di consumo sono buoni se sono sostenibili e socialmente responsabili. Ma queste condizioni dipendono dai comportamenti delle persone coinvolte e non dal modello in sé. Dunque, dipende da noi, dalle relazioni che stabiliamo con gli altri (tra agricoltori, tra operatori della filiera, tra operatori economici e consumatori, tra operatori economici e ricercatori, tra sistemi paese, ecc.)e dagli impegni che reciprocamente prendiamo per sostenerci.

Ma quando andiamo agli incontri dovremmo avere delle buone idee in testa e mettere a disposizione il nostro "saper fare" (come dice Alberto) perché è questo il succo dell'italianità che gli altri, ancora per un po', sono disposti a riconoscerci.

Marco Felicani

15 settembre 2012 ore 16:04

il km0 "risolve un pezzetto", le catene "a marchio loro" portano acqua ad un altro mulino e non è detto siano i produttori agricoli, la globalizzazione "selvaggia" non gestita abbiam creduto fosse la modernità ed il futuro portandoci "roba a basso costo"...
MA come detto altrove altre volte essendo i mercati imperfetti per ovvia impossibilità di tutti d'accedervi e "giocarci" ad armi pari, necessita una gestione della cosa ed in particolare del settore agricolo che è strutturalmente incapace di avere una programmazione di tipo industriale...
Non so esattamente cosa intenda per "ondata neonazionalistica ed autarchica" ma il settore non può essere abbandonato alla ristrutturazione selvaggia "peggio del sistema Marchionne"!!
M'è capitato di sentire "un operaio licenziato perde lo stipendio ma un contadino può sempre vendere tutto..." certamente vero ma non capiamo che per un "contadino licenziato" si abbattono frutteti, si cessano assunzioni,etc etc poichè le aziende emergenti sono ad elevata tecnologia e ridotta manodopera (i prodotti ad elevata manodopera son quelli dell'import selvaggio) come l'agroindustria o il biogas...
Il prodotto agricolo deve tornare ad avere dignità e non essere considerato ad essere solo una commodities, ed allora a proposito di rendite i pagamenti diretti gli agricoltori dovrebbero essere smantellati o dati solo accoppiati (non come ora dove alcuni vivono di rendita sul pregresso !!) o girati allo sviluppo rurale per l'ammodernamento dei territori rurali e/o utilizzati per cofinanziare assicurazioni obbligatorie sul reddito e/o sviluppo nuovi mercati oltre al riconoscimento dell'adozione di certificazioni e buone pratiche agricole oltre alla formazione di reti d'impresa (qua invece continuiamo ad accoltellarci a vicenda)...

Rinaldo Marcaccio

15 settembre 2012 ore 14:45

Le leggi e i tribunali sono inevitabili nel momento in cui si devono difendere le nostre tipicità e la nostra civiltà alimentare dalle frodi.
Lasciar correre tutto come se niente fosse, questo sì che le metterebbe a rischio.
Tenderei a non sovrapporre o confondere gli aspetti legali, con quelli delle cicliche contaminazioni tra diversi usi e costumi alimentari.

Alberto Guidorzi

15 settembre 2012 ore 11:04

Alfonso rinforzi sempre più la mia convinzione che è il "Savoir faire" che occorre preservare e innovare nello stesso tempo e non la tipicità delle nostre produzioni di materia prima, il cui approvvigionamento nazionale è sempre più in calo.