Cultura

L'INFELICE POPOLO AZTECO E I MOLTI TESORI DELL'ELDORADO

La conoscenza delle leggi dell'agricoltura era tale da giungere a selezionare, in dei giardini botanici, le varietà di piante di cui si nutrivano: zucche, peperoni, fagioli, mais, pomodori, patate, vaniglia e cacao

18 ottobre 2003 | G. F. Giunchi

Il libro della storia dell’uomo, narra di un popolo che non aveva una lingua scritta e la matematica era a livello elementare. Non utilizzava il latte, non conosceva il ferro e il vetro. E aveva costruito città con strade pavimentate e templi di geometrica bellezza, ornati da inquietanti bassorilievi. Aveva una tale conoscenza delle leggi dell’agricoltura da selezionare in giardini botanici, le varietà di piante di cui si nutriva. E praticava sacrifici umani. Lavorava con gran maestria l’oro e l’argento, ma l’identità di denaro era attribuita ai semi scuri racchiusi nei frutti dell’albero del cacao. Al vertice della sua organizzazione sociale, vi erano un imperatore ed una casta sacerdotale, protetti da guerrieri piumati. Riti cruenti e crudeli pene placavano divinità sanguinarie e inaccessibili. Tutto questo, quando in Europa volgeva al termine la grande stagione iniziata con il Rinascimento italiano.
Erano gli Aztechi. A nessun altro popolo fu riservato un destino cosi cupo e desolante.
In anni perduti nella memoria del tempo, per ragioni ignote, il loro Dio li abbandonò. Salì su una zattera e si diresse nell’oceano verso il sorgere del sole. Da allora, con l’animo perennemente inquieto, perché afflitti da una colpa che sentivano senza comprenderla, gli Aztechi attendevano il suo ritorno.
Quali feste ci sarebbero state! Quali danze attorno all’oscura pietra del Nume. Là, ove il sangue della vergine si mescolava a quello del guanaco! Quali canti sulla rupe divina, ove il sangue dei prigionieri dissetava il condor sacro!
Il Dio era ritornato, era finito per sempre l’esilio dell’anima. Si sarebbe bevuto per giorni il ciocolatl, camminando come in sogno nel mercato di Tenochitlàne.
E un giorno, da quel mare ove il Dio era partito, qualcuno giunse.
Erano i conquistadores. Li guidava un condottiero truce e spietato, la cui sanguinaria crudeltà, macchiò per sempre gli antichi scudi della cavalleria castigliana. Era un ammiraglio della flotta del re di Spagna. Si chiamava Hernan Cortes.
Nulla avevano gli Aztechi dei e riti, crudeltà e armi, per misurarsi con uomini dalla pelle bianca con vestiti invulnerabili e armi terribili da dove, scagliata dal fuoco, inesorabile scattava la morte, e aiutati da un animale grande e sconosciuto il cavallo.
Fu introdotta l'Encomienda, raffinata forma di sottomissione dei villaggi indigeni posti sotto la tutela di un colono spagnolo, che provvedeva al loro nutrimento e cristianizzazione. Riceveva in cambio il lavoro gratuito e lo sfruttamento delle terre. Di fatto, fu una delle peggiori, se non la peggiore forma di schiavitù creata dall'uomo.
Gli Encomenderos scrissero un delle pagine più nere e crudeli della conquista del continente americano. L'altra fu lo sterminio dei pellirosse.
Nel corso del 1700 la popolazione indigena, in conseguenza alle terribili condizioni di vita ed ai morbi sconosciuti portati dai conquistadores, era stata decimata. Gli Aztechi, come popolo, non esistevano più; e l'Encomienda si estinse. Alla fine del secolo la Corona Spagnola, con Regio Decreto, ne sancì quindi l'abolizione.
Così fu conquistato l’Eldorado. La popolazione messicana, stimata in trenta milioni prima dell’arrivo degli spagnoli, era, cinquant’anni dopo, meno di cinque milioni e poco più di un milione alla fine del 1600.
I pochi superstiti di quel massacro orrendo, furono finalmente civilizzati. E appresero la cultura, le leggi e gli Dei provenienti dell'Europa. Primo, il loro nobile codice di guerra, secondo il quale possono essere massacrati, nei modi più crudeli donne, vecchi, bambini e uomini inermi, ma è consentito mangiare solo gli animali.
In quegli anni, mentre qualcuno chiedeva alla Storia, se il beneficio di quelle conquiste dovesse essere pagato con tutto quel dolore, l’Europa conosceva e assimilava ai suoi costumi le zucche gigantesche, i peperoni colorati, i fagioli sgargianti, il mais solare, il pomodoro trasparente, la patata tenebrosa, la vaniglia inebriante e il cacao divino. I tesori dell’Eldorado, dell’infelice popolo Azteco.