Cultura
Giulio Leone e la modernizzazione non governata
Ancora una volta una grande conquista come l'agricoltura moderna, è stata resa precaria dall'esilità dei gruppi dirigenti. Il ritratto di un agronomo d'alto profilo tecnico-scientifico
26 marzo 2011 | Alfonso Pascale
Per iniziativa della Federazione Italiana Dottori in Agraria e Forestali (FIDAF) e del suo benemerito Presidente, Luigi Rossi, si è svolto nei giorni scorsi un incontro per ricordare Giulio Leone, scomparso recentemente all'età di 95 anni, che ha dedicato la sua intensa attività di agronomo alla trasformazione agraria del Mezzogiorno e in particolare alla bonifica. Ne hanno parlato Carlo Aiello, Luigi Cavazza, Anna Maria Martuccelli, Tommaso Maggiore e Silvano Marsella.
Dopo aver contribuito alla realizzazione della riforma agraria in Calabria nei primi anni Cinquanta, tra il 1962 e il 1978 Giulio Leone fu impegnato presso la Cassa per il Mezzogiorno, prima alla direzione del servizio delle bonifiche e successivamente come vice direttore generale. Una figura d'alto profilo tecnico-scientifico, ma schivo, per natura, ad esporre il proprio punto di vista e sempre pronto, nelle discussioni e nei casi della vita, a comporre conflitti e divaricazioni che apparivano insanabili.
Egli appartenne, dunque, a quel nucleo di grandi tecnici che, in aderenza alle direttive fissate in sede politico-istituzionale e con una forte impronta tecnico-scientifica sia personale che di gruppo, attuarono gli interventi che dettero uno scossone all'economia e alla società italiana, determinandone la modernizzazione.
Il colpo d'ariete
I titoli del programma agricolo per la ricostruzione del Paese dalle macerie della guerra erano stati fissati nell'art. 44 della Costituzione: a) imporre obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata; b) promuovere la bonifica delle terre, c) trasformare il latifondo; d) aiutare la piccola e media proprietà; e) favorire la montagna. Il tutto si sarebbe dovuto finalizzare, in base al dettato dei padri costituenti, alla razionale utilizzazione del territorio e al conseguimento della giustizia sociale, i due fari di cui servirsi per illuminare la strada da percorrere. E così nel 1948 si istituì la Cassa per la formazione della proprietà contadina e nel 1950 si vararono la riforma agraria e la Cassa per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno.
Il programma di riforma agraria per mettere fine al latifondo riguardò il Molise, la Puglia, la Basilicata, la Calabria, la Sicilia, la Sardegna e alcune province di altre regioni: il Delta padano, la Maremma e il Fucino. Le proprietà superiori ai 300 ettari vennero espropriate. Furono indennizzati 2.800 proprietari e i 700 mila ettari espropriati costituirono la massa delle terre assegnate poi in poderi ai contadini. Tra il 1950 e il 1960, quando già il grosso delle operazioni di assegnazione era esaurito, oltre 417 mila ettari di terra passarono in mano a contadini e braccianti poveri. Un trasferimento di beni fondiari di notevole ampiezza decisa e governata direttamente dall'autorità pubblica.
Ad esso va aggiunto un fenomeno di accesso spontaneo alla terra favorito dalla Cassa per la proprietà contadina e dalle agevolazioni fiscali poste in essere dallo Stato. In virtù di tali misure - tra il 1948 e il 1968 - passarono nelle mani dei contadini altri 1.600.000 ettari. In un lasso di tempo non lungo la proprietà coltivatrice si diffuse su quasi due milioni di ettari.
Contemporaneamente, a seguito delle opere pubbliche realizzate dalla Cassa per il Mezzogiorno, si debellò completamente la malaria, si ruppe l'isolamento di tanti sperduti centri rurali, si elevò il tono della vita civile nelle campagne, fu completata la bonifica, si estese l'irrigazione su oltre 500.000 ettari. Il tutto avveniva mentre 3 milioni di persone spostavano la residenza dal Mezzogiorno in un comune settentrionale.
Il complesso di tali interventi costituì il colpo d’ariete che avrebbe avviato l’industrializzazione del Paese e l’innesto sulla proprietà diffusa della terra di un’agricoltura moderna, come due facce della stessa medaglia. Una trasformazione sociale ed economica enorme, avvenuta da noi in tempi molto più rapidi rispetto agli altri Paesi dell'Europa occidentale. Solo nel 1958 gli occupati in agricoltura avevano, infatti, ceduto il primato nelle statistiche ai lavoratori dell'industria e già nel 1963 si ebbe il "boom economico". Furono cinque anni di ferro e fuoco in cui l'agricoltura si modernizzò completamente, l'industria crebbe, la scuola assunse dimensioni di massa, i consumi si espansero e i tradizionali modelli familiari e religiosi vennero messi definitivamente in discussione.
Le false letture della modernizzazione
Ma già nella seconda metà degli anni Sessanta qualcosa incominciava a scricchiolare. Non a caso il profondo disagio che si espresse nei moti del '68 serpeggiò profondamente anche nelle campagne. Nelle pieghe più intime della società italiana montò la ribellione verso una classe dirigente che era riuscita a creare per bene le premesse per la grande trasformazione dell'Italia da Paese prevalentemente agricolo a Paese prevalentemente industriale, ma poi, una volta che il processo si era rapidamente concluso, non sapeva più leggere quanto era avvenuto, non ne capiva le dinamiche più profonde e s'intestardiva ad attuare forme di intervento pubblico in continuità con quelle precedenti, senza per nulla adeguare la cultura politica alle novità che si erano nel frattempo affacciate.
Era soprattutto carente un'analisi delle modificazioni culturali, economiche, sociali avvenute nelle campagne; e ciò impediva di cogliere le interrelazioni tra i divesi settori produttivi, le esigenze delle imprese agricole che producevano per il mercato, le potenzialità dell'agroalimentare nel promuovere lo sviluppo dei sistemi territoriali, i nuovi rapporti tra città e campagna che i fenomeni migratori avevano prodotto.
Non si seppero leggere alcuni dati fondamentali della nuova agricoltura che da noi si manifestavano in modo difforme rispetto alla media europea: una percentuale più consistente di agricoltori rispetto all'insieme degli occupati e una quota più elevata di aziende di dimensioni più ridotte. Si ritenne che i due fenomeni fossero l'esito di una modernizzazione incompiuta, mentre costituivano in realtà un elemento fondante della nuova organizzazione sociale ed economica delle campagne italiane.
La sua caratteristica principale era stata in passato ed era rimasta anche dopo la modernizzazione, la molteplicità dei sistemi agricoli territoriali. Le diversità di tali sistemi si erano venuti ad articolare tra due tipologie estreme: un'agricoltura che remunerava le risorse ad un livello comparabile a quello degli altri settori e che era inserita nei circuiti di mercato; e un'agricoltura che impiegava le risorse ad un basso livello di produttività e di remunerazione e che era sostanzialmente esclusa dai circuiti commerciali. La prima svolgeva una funzione produttiva tale da metterla sullo stesso piano degli altri settori e venne considerata la vera agricoltura. La seconda fu ritenuta marginale perché secondo il modello industrialista era priva di quelle economie di scala, di quella specializzazione e standardizzazione necessarie per stare sul mercato. In realtà, anche questa agricoltura, attraverso le economie di scopo, la valorizzazione del capitale umano e sociale e l'interazione con le risorse ambientali e paesaggistiche, si è poi mantenuta vivida negli anni nell'ambito di economie locali a rete.
Il contributo potenziale della cultura agricola alla modernità
Nessuno s'accorse che la cultura agricola, nel trasfondersi nella modernità, aveva inciso in modo significativo nel processo di individualizzazione della società: l'aspirazione profonda all'autonomia e alla libertà dell'individuo, che è propria del ceto contadino, era confluita nel moderno individualismo di massa e lo permeava di sé. Ma nella società tradizionale, il profondo senso della coscienza individuale si coniugava con una marcata dimensione comunitaria fatta di pratiche solidali, mutuo aiuto, reciprocità nelle relazioni umane.
La storia delle campagne è tappezzata di queste pratiche: i riti di ospitalità nei confronti soprattutto dei più indigenti; il vegliare nelle serate invernali per educarsi alla socialità e permettere agli anziani di trasmettere ai giovani la memoria e i valori essenziali per dare un senso alla vita; lo scambio di mano d’opera tra le famiglie nei momenti di punta dei lavori aziendali; i sistemi di regolazione del possesso aventi un’implicita tendenza verso la distribuzione egualitaria delle risorse, a partire dagli usi civici delle popolazioni locali sui terreni di proprietà collettiva.
La reputazione delle diverse comunità rurali si alimentava della capacità di dare valore e dignità alle persone portatrici di singolari particolarità; e costituiva senso comune l’idea che ogni individuo dovesse avere accesso ad una quantità di risorse sufficiente a metterlo in grado di assolvere i suoi obblighi verso la comunità, nella lotta per la sopravvivenza. Le forme consortili per la difesa idraulica affondavano le radici nel medioevo come espressione spontanea del civismo rurale; e le prime cooperative sono sorte, alla fine dell'Ottocento, proprio nei territori rurali come strumenti di difesa dei ceti più deboli.
I paesaggi rurali storici di cui è cosparso tuttora il territorio italiano erano indissolubilmente legati alle pratiche tradizionali di coltivazione, allevamento e cura dei boschi, divenute nel tempo un accumulo di conoscenze ed esperienze che hanno permeato il patrimonio storico, culturale e naturale del nostro Paese.
La grande capacità di integrazione posseduta dalle campagne italiane si poteva, inoltre, scorgere nelle ramificate radici della cultura rurale che spesso non ci appartenevano perché erano nate altrove; e la stessa nostra identità alimentare era stata sempre frutto di una forte propensione degli esperti locali a fare interagire i propri saperi contestuali coi nuovi traguardi della conoscenza scientifica.
La dispersione del patrimonio ideale, storico-culturale e relazionale del mondo rurale
Nel processo di modernizzazione della società, questo enorme patrimonio ideale, storico-culturale e relazionale, si è in gran parte disperso. E tale erosione ha condizionato enormemente la società e l'economia, accentuandone i caratteri utilitaristici e individualistici. La conseguenza è stata l'affermarsi di una visione dei diritti individuali come accumulo continuo di garanzie da preservare in un contesto deprivato del senso di responsabilità da parte dei singoli cittadini o dei gruppi d'interesse nei confronti della collettività e dei beni comuni. E tale visione ha permeato la politica e i rapporti tra lo Stato e le forze sociali organizzate, che hanno smesso di guardare a valori e obiettivi di interesse generale e hanno ridotto le proprie funzioni, a volte, ad un mero esercizio di mediazione al ribasso tra interessi particolaristici e, spesso, ad una continua domanda e offerta di sostegni, favori e privilegi in cambio di consenso elettorale.
Ancora una volta, come sovente è accaduto nella storia del nostro Paese, una grande conquista, in questo caso l'agricoltura moderna, è stata resa precaria dall'esilità dei gruppi dirigenti dal punto di vista sociologico non meno che di quello della loro cultura politica, mettendo a rischio l'acquisizione stessa del risultato. E' come se ad un certo punto la classe dirigente abbia innanzitutto smesso di svolgere quella funzione educativa della coscienza collettiva e del senso democratico dello Stato e delle sue regole, su cui si era esercitata lodevolmente nella precedente fase della ricostruzione. Una disamina, da questo versante, andrebbe compiuta a partire dall'opera dei ministri che si sono avvicendati a Via XX Settembre dal secondo dopoguerra in poi, da Fausto Gullo fino a Giovanni Marcora, che chiude il ciclo delle grandi personalità politiche che hanno diretto la fase più acuta della modernizzazione dell'agricoltura italiana. E andrebbe completata con un esame dell'azione svolta dalle organizzazioni agricole e dai loro leader carismatici, da Paolo Bonomi a Giuseppe Avolio, Alfredo Diana e Arcangelo Lobianco per valutarne gli innegabili meriti ma anche gli immancabili limiti.
Le eventuali responsabilità dell'élite tecnico-scientifica
Non pare fuori luogo porci, a questo punto, una domanda: ci potrebbe essere stata anche una responsabilità dei tecnici, degli studiosi e dei ricercatori operanti nella sfera pubblica che non hanno saputo o voluto leggere la realtà, anche parzialmente, per non mettere in discussione le proprie convinzioni più profonde, e non hanno suggerito ai politici soluzioni diverse ai problemi che si presentavano o non si sono opposti all'attuazione di indizzi contrastanti con le reali esigenze che la situazione poneva?
Con Giulio Leone scompare l'ultimo dei grandi tecnici di cui lo Stato si è servito per portare l'agricoltura nella modernità. Egli era tra coloro che hanno creato i presupposti per l'innovazione ma hanno poi condiviso l'intero processo di modernizzazione. E', dunque, giunto il momento per riflettere su una siffatta questione, indagando sulle vicende di una fase storica importante delle nostre campagne, le cui propaggini arrivano fino ai giorni nostri.
E' indubbio che si trattava di un'élite tecnico-scientifica fortemente pervasa dall'idea di uno sviluppo senza fine e da una profonda fiducia nel progresso tecnico. Ma non sta qui il limite, poiché senza questa grande apertura mentale non ci sarebbero state innovazioni. L'errore sembra essere stato piuttosto quello di non aver compreso che la potenza della tecnica fosse pari alla sua pericolosità, e le sue prestazioni non minori dei suoi rischi. E si è sopravvalutata la capacità autoregolativa dei processi che si erano innescati, una volta abbandonati alla loro spontaneità incontrollata. Pare fuor di dubbio l'insufficiente attenzione alla perdita di beni relazionali e di capitale sociale delle campagne che il progresso tecnico portava con sé ma non in modo inevitabile; un'attenzione che si poteva ottenere mediante un approccio interdisciplinare e un dialogo intenso e permanente tra economisti, agronomi, sociologi, antropologi, storici e urbanisti. Separatezze autoreferenziali, conflitti e incomprensioni che provenivano da lontano e che andrebbero indagati non permisero quel confronto. Una carenza delle èlites culturali che non attenua le responsabilità della politica, ma ci può aiutare a capire quanto è avvenuto effettivamente alle nostre spalle e a guardare con maggiore fiducia al futuro, col necessario spirito critico e senza chiusure mentali.
Alfonso Pascale
29 marzo 2011 ore 00:24Risposta al Direttore:
"Innanzitutto, complimenti per la nuova veste della rivista e specie per l'interattività che permette il confronto e l'esercizio dello spirito critico, risorse scarse di questi tempi.
E' inoltre vero quello che affermi. Sarebbe necessario - con l'apporto di più studiosi e testimoni - porre in risalto tutte quelle personalità che hanno contribuito e contribuiscono a dare lustro alla nostra agricoltura. Ce ne sono molte che non hanno operato e non operano sotto i riflettori; eppure senza di loro le campagne non sarebbero quelle che vediamo dai finestrini dei treni quando percorriamo la penisola. Cercherò, per quanto mi sarà possibile, di collaborare con 'Teatro Naturale' alla realizzazione di tale obiettivo".
Risposta al Prof. Alpi:
"La ringrazio per l'attenzione. La mia opinione è che la diversità dei sistemi agricoli territoriali vada innanzitutto riconosciuta per poter orientare 'a realtà diverse politiche diverse' come suggeriva Manlio Rossi-Doria.
Inoltre, la realtà sotto i nostri occhi ci dice che non esistono solo due modalità di organizzare la produzione agricola: quella integrata totalmente nel mercato e quella completamente fuori dal marcato. C'è anche una terza possibilità, la quale prevede che non tutto viene regolato dal mercato, ma vi è un solo parziale inserimento in esso. Siffatto modello è fortemente legato al progetto che si danno i diversi attori che operano in un determinato territorio e non dipende esclusivamente dai condizionamenti del mercato. E' la modalità che ha permesso a molti agricoltori di adottare strategie di sicurezza nel fronteggiare mercati divenuti sempre più competitivi. Alla sua base vi è la spinta a mantenere o accrescere l'autonomia rispetto ai processi di integrazione nel sistema agroalimentare, che implica invece un aumento della dipendenza.
A tale modello sono infatti legati stili aziendali che fanno riferimento al valore dei rapporti familiari e delle reti relazionali locali, alla cultura diffusa nel territorio, all'interpretazione del processo produttivo come costruzione sociale (quella stessa cultura delle reti informali e della flessibilità operativa che ha permesso a migliaia di ex mezzadri di diventare protagonisti del 'modello adriatico')e al rapporto con il mercato e con la tecnologia in funzione delle proprie convenienze.
In questo modello le risorse naturali sono fortemente coinvolte nel processo produttivo. In esso il lavoro - nelle forme più svariate - viene valorizzato più intensamente.
Tale modello non va confuso con l'agricoltura di sussistenza che connotava le campagne prima dell'avvento del capitalismo, ma è strettamente connesso con la fase di industrializzazione del settore primario.
Coloro che qualche decennio fa preconizzavano la scomparsa di questo modello e la sopravvivenza delle sole imprese interamente integrate nel mercato, come ineludibile e implacabile esito della modernizzazione agricola, sono rimasti delusi. In realtà, molte imprese agricole totalmente dipendenti dall'industria sono state travolte dai processi di selezione e ristrutturazione di pezzi importanti del sistema agroalimentare. Sono invece sopravvissute proprio quelle aziende che solo parzialmente hanno accettato di integrarsi nel mercato e hanno saputo sviluppare forme di diversificazione e rapporti informali con le reti locali di valorizzazione del territorio.
Su di esse si è, negli ultimi tempi, innestata la "nuova agricoltura", che vede tante donne e tanti giovani protagonisti di un ricongiungimento delle attività agricole al territorio.
Tra le due tipologie 'estreme' di cui parlo nell'articolo, esiste dunque questo 'nuovo' mondo in perfetta continuità coi valori e la cultura dell'antico mondo rurale".