L'arca olearia
Apologia dell’extra vergine in cottura. La verità scientifica
Qual è l’olio "ideale” per la cottura? Troppi fattori entrano in gioco, ma si tratta di scegliere la soluzione migliore. Uno studio di Lorenzo Cerretani, Giovanni Lercker e Tullia Gallina Toschi fa finalmente luce su alcuni antichi e irrisolti pregiudizi
27 febbraio 2010 | Giovanni Lercker, Lorenzo Cerretani, Tullia Gallina Toschi
Nelle cucine reali e sperimentali del mondo vive un interminabile dibattito, gastronomico, molecolare e nutrizionale, sullâolio âidealeâ per la cottura e, in questa querelle, entrano in gioco anche aspetti socio-economici, come il costo o la disponibilità dellâolio in quella remota cucina, in quel punto del pianeta.
Eâ noto, e questo vale anche per noi, che ognuno valorizza ciò che ha e che conosce. Gli asiatici hanno il soia, i nordici il burro, noi tante oliveâ¦
Consapevoli della nostra identità , proviamo, con lucidità , a ragionar di cottura e cerchiamo di capire perché la nostra prima scelta, per così dire âMediterraneaâ, è quasi inattaccabile, almeno in teoria.
Innanzi tutto, prendiamo il primo punto di vista, ed, indossando la toque, affrontiamo la cottura più drastica. Lo chef, nella frittura, cerca lâeccellenza per il palato, âpienaâ di qualità edonistiche e sensoriali, equilibrata nellâabbinamento tra olio e cibo, croccante, calda ma non troppo, fresca e profumata, asciutta allâapparenza (lightly deep fried) e dal gusto poco untuoso.
Con il camice bianco del medico nutrizionista non avremmo le stesse preoccupazioni. Saremmo interessati alla salubrità dellâolio, allâeventuale tossicità dellâalimento e, pur non ponendo la frittura alla base della piramide alimentare, la âassolveremmoâ se lâuso fosse sporadico o âin modica quantità â. La preoccupazione calorica non cambierebbe al mutare dellâolio, salvo nel caso in cui fosse molto trattenuto dallâalimento, come accade per i grassi saturi, come lâolio di cocco, la margarina o lo strutto.
Indossando i nostri panni di chimici e tecnologi alimentari, vorremmo individuare lâolio che resiste meglio chimicamente e sensorialmente e che è più stabile nei confronti dellâossidazione. Noi sappiamo, infatti, che, in friggitrice, lâolio non verrà cambiato ma, nella migliore delle ipotesi, consumato in continuo e rabboccato.
Se i punti di vista sono così diversi, quale olio dobbiamo comprare? Con quale dobbiamo cuocere i nostri alimenti?
Prima di rispondere a queste domande vale la pena citare le famose parole del âgastrofisicoâ Nicholas Kurti âà una triste considerazione per la nostra civiltà che, mentre sappiamo misurare la temperatura dell'atmosfera di Venere, non sappiamo cosa accade nei nostri sufflèâ. Kurti, usò, ad Oxford, questa frase provocatoria per portare la scienza in cucina e superare lâempirismo su cui si regge la gastronomia tradizionale.
Torniamo allora, con metodo, alla nostra cottura, partendo proprio dalla frittura, che ne è una applicazione estrema (insieme al forno), cercando di procedere punto per punto. Lâalimento frigge, vibrando immerso nellâolio, sostenuto dal vapore acqueo che lo abbandona in minute bollicine, cuoce e si disidrata, formando la crosta.
La temperatura dellâolio varia da 160 a 240°C, con un valore ottimale intorno ai 180°C.
Durante la cottura il riscaldamento dellâolio e lâesposizione allâazione dellâossigeno sono fattori capaci di innescare il processo ossidativo. Lâossidazione porta ad una degenerazione chimica dellâolio, allâaccumulo di radicali liberi e di molecole dotate di un certo grado di tossicità . La resistenza allâossidazione di un olio è influenzata, in particolar modo, da due fattori: la composizione in acidi grassi, ossia il grado di insaturazione, che può essere percepito visivamente come la maggiore o minore fluidità dellâolio a temperatura ambiente e lâeventuale presenza di componenti antiossidanti, ossia di composti che ritardano lâossidazione, proteggendo sia lâolio che lâalimento che viene fritto.
La fluidità dellâolio, legata soprattutto alla maggiore presenza di acidi grassi polinsaturi, rende lâolio più ossidabile, mentre la maggiore saturazione rende lâolio più resistente. Quindi, tra gli oli più ossidabili e di conseguenza meno adatti alla cottura dobbiamo indicare lâolio di soia e di mais, molto ricchi in acidi grassi polinsaturi, con una preponderante percentuale di acido linoleico (circa 50%) e un discreto apporto di acido linolenico (che supera generalmente il 5%) mentre, al contrario, lâolio di palma è più stabile grazie allâelevato contenuto in acidi grassi saturi (come lâacido palmitico, mediamente intorno al 40%).
Eâ vero, come frequentemente indicato dagli chef, che lâolio di soia, in ottime condizioni di conservazione, scaldato una sola volta, può rendere la frittura âleggeraâ perché, essendo più fluido, rimane meno adeso allâalimento. Un esempio, continuamente citato, di frittura eccellente per qualità sensoriali è la tempura giapponese. Sul piano ossidativo, tuttavia, dobbiamo avvertire il consumatore che un alimento fritto, soprattutto a casa, con un olio molto insaturo è un prodotto a rischio. Può essere ricco di radicali liberi e prodotti di ossidazione.
Ciascuno di noi, soprattutto se frigge nella sua cucina, difficilmente ha gli strumenti per controllare la qualità dellâolio che usa. Per quanto tempo una bottiglia di olio rimane in casa, giorni, mesi? A che temperatura viene conservata? Quante volte viene aperta? Quanta âpericolosaâ aria contiene? Quanta luce prende? Lâolio di soia, in un mese di âcattivaâ conservazione casalinga (bottiglia mezza piena, vicino ai fornelli o a fonti di calore) può ossidarsi completamente.
Lâolio dâoliva rappresenta un buon compromesso tra fluidità e resistenza per il contenuto molto alto (in media 65-70%) di acido oleico (acido monoinsaturo, meno ossidabile dei polinsaturi). Eâ meno fluido dellâolio di soia ma, come lâarachide o il girasole ad alto oleico (ormai preponderante sul mercato) è ben più fluido di un olio di palma. Insomma, non si âfermaâ troppo sullâalimento (se la frittura viene asciugata bene, altro accorgimento da non dimenticare!), il fritto risulta âasciuttoâ e lâossidazione è limitata.
Entra a questo punto in gioco, nel nostro argomentare, la protezione aggiuntiva che possono fornire gli antiossidanti. Essi appartengono, fondamentalmente, a due categorie, quelli lipofili (tocoferoli principalmente), più solubili in olio e quelli idrofili (principalmente acidi, alcoli fenolici e forme complesse), più solubili in acqua. I tocoferoli sono termolabili e quindi vengono distrutti o inattivati già a 180 °C, mentre i secondi, i cosiddetti polifenoli o biofenoli, resistono più a lungo, sacrificandosi pian piano e proteggendo lâolio.
Questi ultimi sono esclusivamente presenti negli oli extravergini e vergini di oliva. Per la cottura sono importanti i polifenoli, mentre per la conservazione a temperatura ambiente anche i tocoferoli giocano un ruolo fondamentale.
In realtà le sostanze fenoliche e i tocoferoli agiscono in sinergia rigenerandosi, ma su questa affascinante teoria torneremo magari in futuro.
Oggi ci limitiamo a dire che un medio indice di insaturazione e la presenza di antiossidanti fenolici sono le variabili importanti per la resistenza ossidativa di un olio destinato alla cottura. Gli antiossidanti fenolici poi, secondo uno studio recente svolto da un gruppo dellâ Università Federico II di Napoli (Napolitano et al., 2008), prevengono lo sviluppo dellâacrilammide.
Questa molecola, classificata tra i possibili carcinogeni dallâInternational Agency for Research on Cancer, si forma, in alcune condizioni, durante la cottura non ben controllata di specifici alimenti come le patate fritte, alcuni prodotti da forno o in seguito alla tostatura del caffè.
Quasi tutte le evidenze ci portano a sostenere lâextravergine a caldo. Lâolio vergine e quello extravergine di oliva sono gli unici a poter essere commercializzati senza subire la raffinazione; per questa ragione sono gli unici che conservano le sostanze fenoliche, che la raffinazione elimina e distrugge.
A questo punto esistono ancora due argomenti storicamente âcontroâ: il punto di fumo e le caratteristiche sensoriali dellâextravergine.
Il punto di fumo è quella temperatura alla quale lâolio comincia ad emettere fumi, in modo continuo. I fumi dellâolio sono tossici, mutageni e cancerogeni, contengono aldeidi, tra le quali lâacroleina, la cui formazione dovrebbe essere evitata o estremamente ridotta in cottura.
Stranamente il punto di fumo non dipende in modo sostanziale dal grado di insaturazione dellâolio ma costituisce, in qualche modo, una indicazione della rottura del legame tra glicerolo ed acidi grassi (Katragadda et al. 2010). Il glicerolo ad alta temperatura si ossida e si trasforma appunto in acroleina, alchenale prevalente di questo tipo di degradazione termica. Lâacroleina possiede più di una via di formazione, tuttavia quella di decomposizione del glicerolo è senzâaltro preponderante alle alte temperature (> 230 °C).
Al bruciarsi dellâolio, che avviene a temperatura più bassa tanto più corta è la catena carboniosa degli acidi grassi che lo compongono (acidi a corta catena, come il laurico, sono poco adatti alla cottura), si producono molte altre sostanze volatili di natura aldeidica, poco desiderabili sul piano nutrizionale.
La regola generale che impone di friggere in oli che abbiano un elevato punto di fumo è quindi corretta, tuttavia il punto di fumo dellâolio extravergine di oliva non è così critico come spesso indicato. Non lo è quando lâextravergine è di qualità e la temperatura di frittura quella giusta. Si abbassa invece (<160°C) negli oli vergini ad alta acidità che non sono adatti né per composizione, né per gusto al riscaldamento (ci fa inorridire pensare di friggere con un olio difettato!).
Un olio extravergine, come indicato di recente da Katragadda, può avere un punto di fumo anche superiore ai 190 °C e a 180°C produrre meno acroleina di un olio di cartamo o di colza.
La controindicazione consiste nellâacidità , che non deve essere alta, così come il contenuto in gliceridi parziali, acidi liberi, e glicerolo che abbassano il punto di fumo.
Un olio extravergine non deve avere una acidità superiore a 0,8 (g/100 g) per legge ma, se è buono e fresco, può tranquillamente stare al di sotto di 0,4 (g di acido oleico per 100 g di olio).
Resta il gusto. Alcuni chef storcono il naso quando si parla di friggere con lâextravergine per lâaroma e il gusto troppo forti.
A pensarci bene, e a consultare un poâ di letteratura sensoriale, lâetichetta di âelevata/eccessiva carica aromaticaâ affibbiata allâolio extravergine è frutto di superficialità . Infatti, se consideriamo quanto varia il contenuto in composti volatili e persistenti (olfatto e gusto) al variare della cultivar, ci rendiamo conto che lâolio giusto si può cercare e trovare. Le varietà Taggiasca ligure o Casaliva gardesana sono caratterizzate da una âcarica aromaticaâ delicata (è così che classifichiamo ai concorsi questi oli) ben diversa dallâintensità che caratterizza la Nocellara del Belice autoctona dellâomonima valle Siciliana o la Nostrana di Brisighella, tipica della Romagna. Inoltre, il fruttato dellâoliva non è un flavour univoco.
Gli oli di Taggiasca e Casaliva sono caratterizzati, oltre che dal gradevole odore di oliva, dalla presenza di note mandorlate, mentre il Nocellara del Belice evidenzia note di pomodoro e il Nostrana di Brisighella sentori di carciofo e cardo. Gli chef di cultura oliandola queste note olfattive le utilizzano con maestria per gli abbinamenti. Così come sanno che, purtroppo o per fortuna, i composti responsabili di questi odori peculiari tendono a âridimensionarsiâ durante la frittura. Sono volatili e le alte temperature li allontanano.
Purtroppo e per fortuna⦠Perché lâolio extravergine è un prodotto di pregio, ma il mercato è saturo di bassa qualità . Sono gli extra di primo prezzo, con il sentore di âpipì di gattoâ allâolfatto, persistente, preponderante e identificato spesso, purtroppo, come âsentore varietaleâ. Questa nota, non certo valorizzante, non se ne va con il riscaldamento, appiattisce le altre e abitua il consumatore ad un âodore di extravergineâ inautentico ed indelebile nella memoria olfattiva.
I bambini, particolarmente sottoposti al consumo di junk food come le patate o le cips fritte in cattivo oliva, sono i più abituati al difetto di riscaldo o di rancido e non li associano più, come dovrebbero, a qualcosa di negativo.
Quindi i dubbi sensoriali in merito allâuso dellâextravergine in cottura, più che nellâabbinamento che è vario e stimolante, stanno nella mancanza di una cultura diffusa del âgusto dellâolioâ e nella grande quantità di cattivo olio extravergine che riempie gli scaffali, i tavoli e le cucine e non viene riconosciuto come tale (per la sola qualità del prezzoâ¦).
In merito allâuso dellâextravergine in vari tipi di cottura, il nostro gruppo ha condotto unâindagine (Bendini et al., 2007) sullâutilizzo a caldo di tre oli e grassi in alcune ricette tradizionali della cucina casalinga italiana: il ragù di carne, il sugo di pomodoro, lâarrosto di vitello al forno e la fettina di carne di manzo in padella. La ricerca ha confrontato lâolio extravergine di oliva (ne sono stati considerati due tipi diversi per intensità delle note di amaro e piccante), lâolio di girasole ed il burro, in merito alla resistenza allâossidazione.
I risultati hanno promosso gli extravergini. Le motivazioni principali delle migliori performance in cottura dellâolio extravergine sono state ricondotte alla presenza delle sostanze a struttura fenolica, in grado di proteggere le sostanze grasse dallâossidazione accelerata dal riscaldamento. Soltanto alle condizioni, molto drastiche, di preparazione del ragù tradizionale (3 ore) si è assistito alla scomparsa, quasi completa, degli antiossidanti a struttura fenolica.
Il nostro argomentare porta ad una conclusione: cucinare con un extravergine è unâottima scelta sia per il gusto, che per la salute. Purchè sia di qualità , scelto con criterio, fresco e con una bassa acidità .
Unâultima considerazione. Valutando il costo e il valore dellâextravergine è sostenibile proporlo per la cottura, in particolare la frittura?
A nostro parere sì e ci sono degli accorgimenti per il risparmio. Tipo friggere meno e friggere o soffriggere allâorientale in una padella tipo wok che concentra lâolio sul fondo concavo riducendone la quantità necessaria a âbagnareâ lâalimento da cuocere.
Infine, per la frittura, che richiede comunque grandi quantità di olio, una buona idea può essere quella di utilizzare una miscela di oli in padella. Ad esempio diluire un olio di arachide con un 30-40% di extravergine di ottima qualità , per proteggere lâolio, il cibo e il nostro organismo dai radicali e dalle sostanze tossiche che la âchimicaâ della cottura produce.
Bibliografia
Bendini A., Cerretani L., Cane A., Gallina Toschi T., Lercker G. L’impiego a caldo degli oli extravergini di oliva. In atti del "8° Congresso Italiano di Scienza e Tecnologia degli Alimenti (CISETA)" Tuttofood, Fieramilano, 7-8 maggio 2007, pp. 11.
Katragadda, H.R., Fullana, A., Sidhu, S., Carbonell-Barrachina, A.A. Emissions of volatile aldehydes from heated cooking oils. Food Chemistry 120 (1), pp. 59-65 (2010).
Napolitano, A., Morales, F., Sacchi, R., Fogliano, V. Relationship between virgin olive oil phenolic compounds and acrylamide formation in fried crisps. Journal of Agricultural and Food Chemistry 56 (6), pp. 2034-2040 (2008).