L'arca olearia

Nuove vie per l’olivicoltura italiana / 2. Varietà e competitività, le risposte degli accademici

Come l’Italia può giocare la sua partita? Come restituirle competitività? Possiamo competere sul fronte dei costi di produzione? Chiudiamo questo speciale con alcune importanti riflessioni e gli spunti di tre esperti

07 febbraio 2009 | Alberto Grimelli

Abbiamo continuato ad interrogare il mondo accademico, perché l’Italia si trova ad un bivio ed è necessario prendere una strada.
Rincorrere la produzioni a basso costo o trovare un’altra via.
Se quest’ultima è la decisione strategica che, come Paese, dovremmo prendere, quali sono i punti e gli elementi di forza che abbiamo, cosa possiamo valorizzare.

Domande a cui hanno risposto: GianFrancesco Montedoro, Presidente dell’Accademia Nazionale dell’Olivo e dell’Olio: Piero Fiorino, docente dell’Università di Firenze e curatore di “Olea – Trattato di olivicoltura”; Claudio Cantini, noto ricercatore olivicolo del Cnr-Ivalsa e responsabile dell’Azienda Agraria Sperimentale di Santa Paolina.

- Autoctono o internazionale? Le cultivar teoricamente a disposizione degli olivicoltori sono migliaia, che si riducono a qualche centinaio guardando i listini dei vivai e a qualche decina se esaminiamo i dati di diffusione. Occorre puntare sulle varietà storicamente consolidate, su quelle di nuova introduzione, sulle riscoperta di quelle antiche o sull’importazione di cultivar estere? Quali garanzie per gli olivicoltori?
GianFrancesco Montedoro: Le cultivar a disposizione degli olivicoltori di cui sono note le caratteristiche produttive e l’adattabilità ambientale,in base alle più recenti valutazioni genetiche, possono riassumersi in qualche decina.
Le scelte non possono non tener conto degli obbiettivi produttivi. Se l’interesse è quello d’investire nei sistemi intensivi le varietà al momento non sono più di cinque o sei di cui quattro alloctone (estere) .Ovviamente la disponibilità si allarga qualora si intenda proseguire sviluppando sistemi tradizionali aggiornati in base alla meccanizzazione. Ma le cultivar autoctone studiate che fanno qualità sensoriale e nutrizionale, al momento, non sono più di dieci.
Le garanzie per gli olivicoltori sono le certificazioni effettuate in base ad un protocollo agronomico,genetico e qualitativo degli oli prodotti redatto dall’Accademia Nazionale dell’Olivo e dell’Olio e a disposizione dei vivaisti italiani.
Piero Fiorino: Per dare una risposta a questo quesito si debbono avere chiari gli obbiettivi della coltivazione e definire verso quale tipo di produzione si vuole andare, poiché chi opera ad esempio in ambito DOP non ha molte possibilità di scegliere le cv; inoltre non tutte le cv possono essere adattate agli stessi sistemi di allevamento o alle stesse operazioni di raccolta; ogni varietà ha le sue esigenze e di conseguenza i suoi costi, cosicché la scelta dell’indirizzo diviene determinante per le valutazioni successive.
I sistemi di allevamento convenientemente utilizzabili nelle nuove piantagioni sono riferibili a due “modelli”: le piantagioni intensive specializzate e gli impianti superintensivi che sono stati sperimentati con successo in Spagna e si stanno diffondendo in diversi Paesi; entrambi i modelli si basano su una intensificazione dei mezzi tecnici per ottenere produzioni anticipate ed assai elevate (ben oltre 1 tonnellata d’olio per ettaro).
Il primo è caratterizzato da una densità di 400-500 piante per ettaro e le operazioni colturali vengono applicate su singole piante (potatura e raccolta), mentre il secondo, che si realizza con 1000-2000 piante per ettaro, obbliga ad un cambiamento radicale della forma, della potatura e del pacchetto delle agrotecniche, poiché, con quelle densità di piantagione (intorno a 1,5 m sulla fila), l’olivo perde la sua identità di pianta e si formano filari, sui quali si interviene per la raccolta con macchine scavallatrici che, in una unica operazione, staccano, intercettano e convogliano in contenitore le olive. Questo è un sistema di notevole efficacia che riduce il costo di raccolta a pochi centesimi al kg malgrado l’elevato costo dei macchinari.
A questo punto la scelta tra le varietà è molto più ristretta, poiché per gli impianti superintensivi sono disponibili poche collaudate varietà, tutte straniere, (Arbequina clone IRTA-i.18, Koroneki clone I-38 ed Arbosana, clone I-43), mentre i lavori con il pochissimo materiale italiano apparentemente idoneo sono appena iniziati.
Si parla diffusamente dell’esistenza di un migliaio di varietà, nelle collezioni ne sono catalogate 5-600, ma poche decine sono abbastanza conosciute da poter essere caratterizzate e suggerite con sicurezza. Anche la definizione di cultivar “internazionale” in olivicoltura è vaga ed andrebbe meglio indicata: si dovrebbero definire “internazionali” quelle poche varietà che sappiamo adattabili a diverse condizioni eco pedologiche senza mutare sensibilmente il loro comportamento e le caratteristiche del prodotto; queste varietà sono ancora meno numerose, e molte di esse non sono italiane.
Infine, per dare una risposta agli agricoltori ai quali è stato suggerito di rilanciare la loro olivicoltura partendo da varietà nazionali o locali (autoctono, che cosa significa esattamente?), anche ipotizzando che la ricerca riesca ad individuare in tempi rapidi delle varietà sulle quali puntare, comunque si debbono rinnovare le piantagioni, quindi il problema di fondo, il rinnovamento, risulta ineludibile.
Le garanzie per gli agricoltori sono quelle di sempre: se hai una malattia grave, vai da uno specialista e non da un esorcista. Se questo non può esser fatto dai singoli agricoltori, si faccia pressione sulle Istituzioni ché agiscano in loro vece, non che esse si sostituiscano agli specialisti: le probabilità di successo saranno migliori.
Claudio Cantini: Se per internazionale si intende una varietà diffusa in paesi produttivi di diversi continenti i nomi conosciuti si riducono forse ad una decina. Tra queste tra le altre ci sono varietà italiane come il “Frantoio” ed il “Leccino” introdotte, nel corso degli anni, in tutti i paesi olivicoli. Gli impianti superintensivi moderni di concezione spagnola invece, in corso di realizzazione in tutto il mondo, prevedono l’uso di Arbequina, Arbosana e Koroneiki, non italiane.
La viticoltura è da sempre un punto di riferimento anche gli olivicoltori: occorre ricordare come dopo una adozione generalizzata di vitigni “internazionali” per produzioni standardizzate sia stata avvertita l’esigenza di una diversificazione e di una maggiore utilizzazione delle tipicità locali, capaci di distinguersi rispetto a quanto presente sul mercato.
I sistemi di certificazione di prodotto attualmente utilizzati in olivicoltura quali DOP, IGP, prevedono l’adozione delle varietà inserite nei disciplinari, di origine più o meno autoctona. La maggiore garanzia per gli olivicoltori è data quindi dalle cultivar storiche ma un rilancio della olivicoltura dovrebbe passare, ancora una volta attraverso un rilancio della ricerca. Sarebbe indispensabile identificare in modo univoco i genotipi presenti, studiare la potenzialità dei loro olii alla luce delle moderne conoscenze chimiche ed organolettiche, individuare infine come utilizzarle al meglio nei sistemi agronomici. Già adesso, per quanto riguarda il germoplasma italiano e la mia esperienza personale, ci sono informazioni inutilizzate perché mancano fondi di ricerca: il collaudo di sistemi innovativi non può essere effettuato per mancanza di fondi pubblici mentre da parte privata si vorrebbero sistemi chiavi in mano, panacea per tutti i mali, senza alcun rischio o investimento personale o con minimo controllo della sostenibilità a lungo termine.

- Razionalizzazione e meccanizzazione di potatura e raccolta possono davvero farci tornare competitivi con Spagna e nuovi Paesi emergenti?
GianFrancesco Montedoro: Molti dati economici attribuiscono a queste due pratiche agronomiche la responsabilità della mancanza di competitività degli ioli italiani. Dunque razionalizzare queste due operazione rappresentano il “sogno nel cassetto” di tutti gli olivicoltori italiani. Questa opportunità è legata all’applicazione dei sistemi intensivi i cui limiti qualitativi rapportati alla produzione italiana sono al momento, inequivocabili.
Piero Fiorino: Essere competitivi sul mercato significa imporsi in specifici segmenti determinati dal prezzo e dalle caratteristiche del prodotto; in Italia, con i soli costi dell’uso del suolo e dell’acqua giochiamo con l’handicap in tutti i tipi di coltivazione, ed è vano pensare ora di competere con molti dei Paesi emergenti e la Spagna stessa, anche limitandoci a considerare i puri costi di produzione; per riuscire a sopravvivere a questa crisi occorre puntare su un prodotto di livello “intermedio” o “medio-alto”, di buona qualità e costi contenuti, per poter continuare a valorizzare la qualità, la salubrità, il territorio e la tradizione, purché adeguatamente protetti a livello normativo (etichettatura). Questo appare difficile da realizzare sia tecnicamente che nell’ambito delle Istituzioni, anche comunitarie; forse meno della metà della superficie olivicola può essere almeno “razionalizzata” (anche questo è un vocabolo di moda per indicare comunque interventi), ma anche in questo caso l’efficacia delle operazioni meccaniche (la raccolta principalmente, la potatura per ora è solo un augurio) è comunque limitata dalle situazioni agronomiche e dalla bassa produttività delle piantagioni.
Claudio Cantini: In un interessante pamphlet di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi uscito lo scorso anno (La crisi. Può la politica salvare il mondo? Il Saggiatore) si afferma che l’Italia ormai non può più competere con altri Paesi per la produzione di alcuni beni o nell’industria pesante sollecitando il paese ad investire nei settori su cui sa lavorare in modo esclusivo o con elevata professionalità. Lo stesso concetto è valido, a mio parere, per l’olio di oliva. Certamente non possiamo essere competitivi con gli altri Paesi se ci mettiamo a produrre lo stesso olio, perché da noi non esistono le superfici, le strutture produttive di grandi dimensioni, i bassi costi di produzione. Se noi siamo bravi, come diciamo, a produrre olio di qualità proviamo a fare olio di qualità, razionalizzando e meccanizzando il più possibile la coltura e cercando di distinguersi dalla massa. Se una piccola percentuale di quelli che utilizzano l’olio di oliva di bassa gamma si avvicina, anche per curiosità, a consumare olio di alta qualità sarà difficile che torni indietro. Anche sotto questo punto di vista si sconta il ritardo del “sistema Italia” ed il mondo dell’olio rappresenta solo uno spaccato del Paese: frammentazione, mancanza di progettualità e visione comune, cialtroneria, pressapochismo e concorrenza sleale.
Non è facile far concorrenza a paesi dove il comparto agricolo è validamente supportato da una buona amministrazione pubblica e da importanti investimenti privati guidati da visioni a lungo termine. Forse gli interventi capaci di aiutare immediatamente gli imprenditori olivicoli dovrebbero essere rivolti non alla produzione quanto per la concentrazione dell’offerta, della distribuzione e del marketing ma soprattutto della comunicazione e della protezione perché non c’è prodotto più misconosciuto e mistificato dell’olio extravergine di oliva.

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