L'arca olearia

Nuove vie per l’olivicoltura italiana / 1. I consigli del mondo scientifico

Come sfuggire alla crisi? Quali strategie adottare? Domande che produttori e frantoiani quotidianamente pongono e a cui hanno dato risposta tre illustri membri del mondo accademico e della ricerca

31 gennaio 2009 | Alberto Grimelli

Innovazione, innovazione, innovazione.
Chi si ferma è perduto.
Questo è quanto ci sentiamo in continuazione ripetere da economisti ed esperti.
Lo stato di salute di un’impresa e di un settore dipende essenzialmente dagli investimenti e dal tasso di evoluzione. Le risorse a disposizione sono però molto limitate, ecco perché è, prima di tutto, necessario saper spendere bene.

Per consigli e suggerimenti ci siamo rivolti a tre illustri esponenti del mondo accademico e scientifico: GianFrancesco Montedoro, Presidente dell’Accademia Nazionale dell’Olivo e dell’Olio: Piero Fiorino, docente dell’Università di Firenze e curatore di “Olea – Trattato di olivicoltura”; Claudio Cantini, noto ricercatore olivicolo del Cnr-Ivalsa e responsabile dell’Azienda Agraria Sperimentale di Santa Paolina.

- Per l’olivicoltura italiana si deve ormai parlare di crisi profonda. La redditività della coltura è ai minimi storici e i contributi pubblici vanno riducendosi e probabilmente sono ormai agli sgoccioli. Vi è qualche speranza? Vi è un modello olivicolo utile per un rilancio?
GianFrancesco Montedoro: Come in altre occasioni indicato ed in linea con altri settori alimentari ad esempio vino e latte,è necessario rivedere la classificazione merceologica degli di oliva. Unica eccezione nel comparto alimentare l’unico olio prodotto dalle olive, collocato sugli scaffali della distribuzione alimentare, è l’extra vergine. I parametri analitici o markers indicati dal Reg.to UE 2568/91 con sufficiente validità garantiscono la genuinità (la provenienza botanica), le modalità del processo d’estrazione(esclusivamente meccanico) oltrechè una parziale valutazione dello stato d’alterazione (acidità libera,numero di perossidi,costanti spettrofotometriche UV) e l’assenza di difetti organolettici (o quasi).
Da alcuni anni i consumatori, soprattutto quelli di paesi non tradizionalmente produttori, richiedono altri attributi qualitativi e cioè la rispondenza dell’alimento in generale e l’olio di oliva in particolare, alle loro esigenze sensoriali e soprattutto nutrizionali salutistiche. Proprietà che non sono prese in considerazione dal Reg.to UE 2568/91. Ne consegue che oli dotati di contenuti sensoriali e nutrizionali diversi non sono riconosciuti come tali dal consumatore e caricati del loro potenziale valore aggiunto. E’ evidente che in questa situazione (stessa indicazione merceologica) il consumatore tende ad acquistare il prodotto che costa meno. In questo gioco sono favoriti gli oli provenienti da paesi esteri o miscele di questi con oli italiani per i loro prezzi più competitivi. La produzione italiana per essere adeguatamente esitata deve adeguarsi. In questa strategia gli spagnoli stanno acquistando aziende olearie italiane andando ad occupare sempre maggiori quote di mercato
In una siffatta situazione che vede un mercato sovraffollato,l’adeguamento dei prezzi in un sistema globale ha portato i medesimi al minimo storico.
Alla domanda :Vi è qualche speranza,aggiungo,che il mercato riprenda?
E’ molto difficile pensare in positivo
Allora che fare ?
Pensare a due olivicolture:Quella produttiva e a basso costo che soddisfi il Reg.to citato in concorrenza con gli altri paesi produttori; in pratica una olivicoltura intensiva o super intensiva che abbisogna però di una seria sperimentazione tale da verificare l’adattabilità delle varietà italiane autoctone al nuovo sistema
Il mantenimento della olivicoltura attuale tradizionale supportato da sussidi o contributi pubblici.
Caludio Cantini: La crisi dell’olivicoltura italiana ha ragioni sia strutturali che storiche. La struttura produttiva olivicola nazionale, formata da piccole e medie aziende di imprenditori agricoli a titolo principale, difficilmente potrà subire modifiche. Per quanto riguarda invece il futuro andamento del mercato mondiale dell’olio, come dell’intero comparto agroalimentare, è difficile indovinare il destino. La crisi finanziaria ha provocato notevoli scossoni, esistono al momento forti investimenti in abito agricolo, sia in terreni che in società, da parte di interi Paesi o gruppi finanziari che si preparano alla ipotizzata crescente domanda di beni primari da parte dei paesi in crescita demografica ed economica.
A livello teorico la domanda di oli vegetali dovrebbe crescere a livello mondiale nei prossimi anni. Fino ad adesso questa ipotesi, riportata da molti analisti, ha indotto azioni importanti a livello industriale, basti pensare alle acquisizioni del gruppo SOS Cuetara in Italia, senza però creare alcun beneficio ai produttori, anzi concentrando ancora di più la domanda di olio extravergine provocando di fatto abbassamenti di prezzo. Ci sono inoltre forti cambiamenti in atto nei sistemi di produzione e negli assi produttivi con elevati investimenti in Paesi del sud America e del nord Africa dove i costi di produzione sono più bassi rispetto all’Europa.
La speranza non deve essere mai perduta ma un rilancio della nostra olivicoltura può passare soltanto attraverso un piano olivicolo nazionale, mai definito se non in tempi remoti e comunque mai applicato. Comunque sia l’Italia non potrà mai più competere sui mercati internazionali in termini di prezzo e senza chiudersi agli scambi ed invocare protezioni o sussidi può soltanto puntare alla qualità ed alla tipicità. Un modello olivicolo unico adottabile per inseguire questi obiettivi non esiste ma esistono varie tipologie, tutte legate ad un innalzamento della meccanizzazione. Sarebbe inoltre necessario uno sforzo maggiore in termini di ricerca, finalizzata alla messa a punto ed al collaudo dei modelli proponibili per le varie situazioni.
Piero Fiorino: La speranza che, per un qualche fattore, l’olivicoltura nazionale, così come è, o con pochi ritocchi tecnici, normativi e di marketing possa tornare ad essere remunerativa è destinata solo a creare false illusioni e pericolose aspettative.
A parte alcune piantagioni storiche, la maggior parte degli impianti è stata creata tra il XVIII e gli inizi del XX secolo per far fronte alle esigenze di terra e di alimenti, quando l’olio di oliva era un prodotto strategico (per questa sua importanza durante la prima guerra mondiale fu addirittura emanato il divieto di abbattere piante di olivo); inoltre la popolazione, prevalentemente rurale, disponeva di ingenti quantità di manodopera stagionale non qualificata da impiegare nel settore).
Anche nelle piantagioni realizzate subito dopo la seconda guerra mondiale, valevano ancora i principi dell’olivicoltura estensiva, spesso in coltivazione promiscua, e si deve arrivare agli anni ’60 del XX secolo perché si inizino a realizzare piantagioni attuate con i criteri della specializzazione e tenendo conto dei progressi tecnologici, aggiungendo però solo piccole nuove aree alla sterminata superficie olivetata presente nel nostro Paese; infatti anche negli interventi di “ammodernamento”, invece di optare per la costituzione di nuove piantagioni, si è quasi sempre preferita “la ristrutturazione della chioma”, eufemismo per distribuire pioggerelline di aiuti, o il “rinfittimento”, incentivato anche dall’intervento pubblico, od il “ringiovanimento”, come per esempio in occasione della gelata del 1985.
Era chiaro da decenni che questa olivicoltura sarebbe diventata insostenibile, anche in presenza di contributi pubblici, peraltro in estinzione.
L’ampliamento e la liberalizzazione dei mercati europei, l’allargamento della coltivazione in aree ove la manodopera è a basso costo, il diffondersi in molti Paesi di coltivazioni moderne capaci di produzioni elevate quali-quantitativamente a costi ridotti (anche prima dei sistemi “superintensivi” spagnoli), il costo crescente e la rarefazione della nostra manodopera, la commercializzazione su mercati nazionali ed esteri di prodotti accettabili, ben presentati, magari con marchi italiani, ma di dubbia origine e a basso costo non sono fenomeni apparsi improvvisamente, e gli ammonimenti degli esperti sono stati volutamente e ripetutamente ignorati.
Nella migliore annata mondiale per la produzione di olio di oliva, l’intero mercato internazionale è crollato, con prezzi scesi a valori insostenibili anche per le migliori aziende in un mercato “calmierato” da grosse imprese estere; il nostro Paese con la sua olivicoltura scassata e dagli indirizzi inesistenti, che ormai produce solo il 20% dell’olio nel mondo, di cui quasi la metà ancora lampante, non riesce ad opporsi a questo andamento del mercato e ne subisce le conseguenze.
Parlare di un recupero è assolutamente necessario e forse ancora possibile, attraverso uno sforzo congiunto di rinnovamento e ammodernamento delle piantagioni con adeguati provvedimenti normativi, per favorire i cambiamenti e tutelare la nostra produzione, come la chiara indicazione dell’origine.
Se si è d’accordo sul metodo, allora si può tentare di parlare di “modelli tecnici” per attuarlo.

- Quali sono o saranno le colture che potranno sottrarre terreno all’olivicoltura? Davvero le olivicolture di collina e di montagna sono destinate a scomparire?
GianFrancesco Montedono: E’ verosimile ritenere che non sarà l’olivicoltura meridionale a subire la crisi ma quella centro-settentrionale in quanto meno produttiva e meno adattabile alla meccanizzazione. Al momento, in relazione alle attuali conoscenze, l’unica alternativa all’olivo sono le piante da biomassa o da legno più in generale.
Caludio Cantini: In mancanza di una remunerazione adeguata del prodotto, come succede ad esempio per una parte dell’olivicoltura del nostro sud, certamente altre colture industriali cresceranno a scapito dell’olivo. Per le zone marginali è più ipotizzabile invece l’abbandono e la trasformazione dei terreni olivetati a bosco e la rinaturalizzazione delle superfici ora coltivate.
L’olivo però è solo una pedina nella complesse dinamiche coinvolte nel mantenimento delle zone svantaggiate. Dove il mantenimento della vita agli standard a cui ci siamo ormai abituati richiede sacrifici elevati si ha spopolamento ed abbandono. Anche in questo caso per non far scomparire interi paesi e colture occorrerebbe trovare slancio in investimenti infrastrutturali e sostegni al reddito, perseguibili ad esempio con sgravi fiscali.. Si deve incentivare la vita nelle zone svantaggiate con politiche di sostegno sociale, con strade di collegamento, reti internet efficienti, sistemi economici di approvvigionamento energetico. Solo così qualcuno potrà essere invogliato a continuare la coltivazione, con criteri moderni e introduzione di macchinari adeguati, nelle zone difficili. Comunque l’olivicoltura di queste zone rimarrà sempre marginale, di sostegno o legata al consumo locale che dovrebbe anche essere più incentivato.
Piero Fiorino: Anche l’abbandono di fasce collinari e montane dell’olivo è un fenomeno già iniziato da tempo; prime a sparire sono state le piantagioni irregolari e promiscue, poi alcune fasce terrazzate ed ora il fenomeno ha interessato quelle di difficile accesso e prive di rimuneratività. Il fenomeno coinvolge anche altre coltivazioni, dalla vite ai prati collinari. Purtroppo le coltivazioni non vengono sostituite, vengono abbandonate, con tutti i problemi che ne conseguono. Una possibilità per le fasce collinari è rappresentata dall’arboricoltura da legno, con essenze di diverso pregio (fino al rovere, ciliegio e noce, per citare le più pregiate), ma anche per produrre legna da ardere o per altri usi quali la produzione di biomasse. Non è tutto semplice come sembra, ma è una opportunità concreta, per la quale sono stati erogati nell’ultimo decennio importanti contributi pubblici, e molte regioni e province continuano a guardare con interesse alla possibilità di utilizzare questo intervento. Anche accordi tra Enti locali e olivicoltori potrebbero permettere, soprattutto nelle zone periurbane, la conservazione di esemplari monumentali od isole paesaggistiche, ma come olivicoltura museale, supportata a parte.

Continua…