L'arca olearia

OPINIONI CONTRO. RICERCATORI E ACCADEMICI DIVISI SUGLI OLIVETI SUPERINTENSIVI. UN’OCCASIONE DA NON PERDERE PER GODINI, UN SISTEMA DESTINATO AL FALLIMENTO PER PANNELLI

La discussione è molto accesa. Si confrontano due filosofie e due visioni opposte sull’olivicoltura italiana di domani. La strada giusta è la competizione di costo, caratteristica del modello superintensivo, oppure il premio di prezzo di chi propugna il valore del territorio e della tipicità? Lasciamo ogni conclusione ai nostri lettori

17 marzo 2007 | Alberto Grimelli

Se ne parla moltissimo, spesso a sproposito. E’ comunque uno degli argomenti più gettonati degli ultimi mesi e crediamo che lo sarà ancora per diverso tempo.
L’oliveto superintensivo è un modello olivicolo ancora agli albori, sono pochissimi gli impianti che hanno superato il 10 anni di età, ma che sta riscuotendo indubbio interesse nel mondo produttivo per i costi di gestione dichiarati, inferiori ai 2 euro per chilogrammo d’olio, che renderebbe concorrenziale la nostra produzione con quella di tanti altri Paesi.
Teatro Naturale si è occupato dell’argomento già nel giugno scorso, a seguito della giornata di studio a Spoleto (link esterno), approfondendo poi alcuni aspetti agronomici ed economici rimasti in sospeso (link esterno).
Alla luce dei contrasti e delle discussioni che il modello superintensivo suscita abbiamo così deciso di proporvi le opinioni di due esperti del settore: il Prof. Angelo Godini, docente dell’Università di Bari e il Prof. Giorgio Pannelli, direttore dell’Istituto sperimentale per l’olivicoltura.

- Il sistema superintensivo rappresenta il futuro dell’olivicoltura italiana? Sarà la nostra ancora di salvezza?
Pannelli: Assolutamente no. Vi sono ragioni economiche, agronomiche e ambientali che suffragano abbondantemente questa mia opinione. Una volta tanto che le ricerche scientifiche americane, spagnole e, parzialmente, italiane vanno in un’unica direzione proprio non capisco le ragioni di ostinarsi a indicare nel superintensivo il modello per il futuro dell’olivicoltura. Vossen, Università di Davis – Usa, ha indicato in 126 dollari all’ettaro all’anno i ricavi ottenibili da un impianto superintensivo. Pastor, Consjeria de Innovaciou - Spagna, ha stimato che occorrono dieci anni per l’ammortamento dell’investimento di un impianto superintensivo, indicando però che tra il sesto e il settimo anno si assiste a un collasso dell’impianto. Dati assolutamente in linea con quanto osservato da Vossel che osserva una produzione di 4,7 tonnellate/ettaro al terzo anno, che diventano poco più di 6 al quarto e quinto anno per salire a 8 al sesto e settimo, dopodiché, afferma l’autore, si rendono necessarie potature manuali intense che deprimono il potenziale produttivo, oltre naturalmente a far innalzare i costi. Tengo a sottolineare che questi dati provengono da Paesi dove il modello superintensivo è già stato adottato da qualche tempo, manifestando tutti i suoi limiti. Certi investimenti, 10.000 euro/ettaro, vanno ben ponderati. Banche, assicurazioni, fondi d’investimento, alla ricerca di diversificazione nella gestione di grandi patrimoni, possono permettersi di tali investimenti sulla base di prospetti informativi e simulazioni, accettando i pericoli finanziari conseguenti. Per loro rappresenta una sorta di scommessa, un rischio accettabile. I produttori, chi vive in campagna, può permettersi di scommettere decine di migliaia di euro? Può accettare il rischio? Il sistema superintensivo in Italia può venire anche scoraggiato dal notevole impatto ambientale, dovuto sia all’elevato numero di trattamenti fitosanitari necessari sia al fabbisogno idrico, pari a 2000 metri cubi/ettaro, volumi enormi e probabilmente incompatibili con le riserve irrigue del nostro Paese che stanno diminuendo di anno in anno.
Godini: Le cito tre date. 2010 entra in funzione l’area di libero scambio mediterranea. 2013, finisce l’ocm olio di oliva. 2015, data in cui il Wto ha sancito la fine dei sussidi agricoli. Senza contributi la nostra olivicoltura non può reggersi, sono troppo alti i costi di produzione il che pone fuori mercato il nostro olio. O ci muoviamo oppure verremo spazzati via perché si venderà a 3 euro al litro, un livello che i nostri produttori non saranno in grado di sopportare senza il sostegno pubblico. L’Italia non ha le risorse economiche per salvare, quale patrimonio storico e culturale, 1.100.000 ettari di oliveti, occorre quindi guardare oltre. Tutti i nostri concorrenti stanno investendo sugli oliveti superintensivi, sono forse tutti pazzi? Il gruppo Sos Cuetara sta per impiantare tra i 50 e i 70 mila ettari, gruppi d’investimento francesi hanno grandi programmi in Marocco, la California e l’Australia hanno già migliaia di ettari a dimora. In Italia vi è troppa resistenza, frutto di un’eccessiva prudenza. Stiamo tenendo lo stesso atteggiamento dello sciocco che quando il saggio gli indica la luna guarda il dito. Occorre una mentalità aperta, fortemente innovatrice.

- Intensificazione colturale e tipicità non sono forse in contrasto? Voler risparmiare a tutti i costi quali conseguenze può portare?
Godini: L’ostilità italiana verso la meccanizzazione è rinomata. Basti pensare che Stati Uniti e Australia vendemmiano il 98% della loro produzione meccanicamente, la Francia il 70% circa, noi il 10%. Una situazione che ci sta provocando forti difficoltà. Non vorrei che certi errori si ripetessero anche nel settore olivicolo. Con la riduzione degli aiuti al frumento duro si stanno liberando molti terreni agricoli pianeggianti e irrigui che potrebbero essere destinati a olivicoltura superintensiva, un modello colturale che necessità di meno di 10 giornate lavorative/ettaro all’anno. Solo con questa tipologia di colture la nostra agricoltura si può salvare. Di tipicità si parla ma i numeri non ci sono. Il sistema della tipicità, Dop e Igp, in Italia non ha prodotto risultati esaltanti. Nel 2004 rappresentava soltanto il 1,2% della nostra produzione nazionale, una percentuale risibile. I prodotti di nicchia, per definizione, sono e resteranno di nicchia. La salvaguardia della tipicità degli oli italiani è poi questione che merita una riflessione. La Dop "Terra di Bari", menzione "Bitonto", solo per citare un esempio ma se ne potrebbero fare molti altri, prevede per non meno dell'80% due varietà, Coratina e Cima di Bitonto (agli antipodi quanto a caratteristiche degli oli), senza specificare quanto dell'una (forse il 100% di Cima di Bitonto a Bitonto e dintorni) oppure dell'altra (forse il 100% di Coratina tra Corato e Andria), più un 20% massimo di altre varietà non meglio identificate. Con tanti saluti per la riconoscibilità del prodotto nel tempo e nello spazio! La conclusione è una sola: massima prudenza quando si parla di tipicità, massima attenzione invece per quanto riguarda la qualità. Inutile infine ribadire che occorre guardare al quadro generale, al sistema olivicolo nazionale che attualmente è formato da impianti vecchi, scarsamente meccanizzabili, contraddistinti da elevata alternanza produttiva. Sul destino di questi impianti non formulo ipotesi, spetta alla politica, nazionale e regionale, trovare soluzioni.
Pannelli: Sono tre le varietà utilizzabili nel modello superintensivo: Arbequina, Arbosana e Koroneiki. Non ci sono cultivar italiane. Mi risulta che il vivaio Agromillora che ha “inventato” e che promuove tale sistema abbia anche provato con alcune nostre varietà, come la Frantoio, senza successo. Introdurre, in maniera indiscriminata e massiccia, varietà greche e spagnole rappresenterebbe certamente una perdita sotto il profilo storico e culturale, tanto più se consideriamo che il germoplasma italiano è quello più ricco, composto di più di 700 varietà. Siamo sicuri di voler disperdere tale ricchezza? Non saremo costretti, tra qualche anno, a dover rincorrere le varietà autoctone, come sta accadendo oggi nel settore vitivinicolo? Occorre lungimiranza e professionalità, il contrario di quanto accaduto con le Dop e le Igp che non hanno saputo fornire risposte alle esigenze di produttori e consumatori. Disciplinari di produzione troppo generici e iniziative di marketing e comunicazione fallimentari. Molti, troppi, credevano che bastasse un marchio per aumentare il prezzo di vendita, ben presto hanno scoperto che non è così. Nonostante le difficoltà delle denominazioni d’origine esiste un tessuto produttivo molto attivo, vivo e imprenditoriale che ha scommesso sulla vera tipicità, ottenendo ottimi risultati. Dall’integrazione fra razionalizzazione delle operazioni colturali, prime fra tutte raccolta e potatura, marketing, differenziazione della produzione e comunicazione sono nate realtà olivicole vincenti sul mercato anche internazionale. Viceversa chi ha puntato esclusivamente sull’abbattimento dei costi, sulla competizione di prezzo ha visto ridurre progressivamente i propri margini di profitto, fino a doversi arrendere ovvero fino al fallimento. Ammesso e assolutamente non concesso che il sistema funzioni, anche sul fronte degli oliveti superintensivi intravedo lo stesso pericolo. Altre Nazioni, attraverso economie di scala, manodopera a più basso costo, possono e potranno sempre produrre a prezzi più concorrenziali dei nostri. A chi allora venderemo la “nostra” Arbequina che costerà il 20-30% in più di quella proveniente dal Marocco, dalla Tunisia, dalla Siria o dall’Australia?