L'arca olearia
La sansa come biocombustibile continua a far discutere
Dopo il 4 giugno 2010 la speranza era che la sansa, in qualunque forma, potesse essere utilizzata come biocombustibile ma le interpretazioni integraliste del Dlgs 152/2006 non mancano
21 aprile 2012 | Alberto Grimelli
Cosa farne della sansa?
Le strade oggi maggiormente praticabili sono tre:
- cederla tal quale ai sansifici
- utilizzarla tal quale quale ammendante agricolo, ovvero spargerla sui campi
- estrarne il nocciolino, da destinare alle caldaie a pellet, e poi spargere il rimanente sui campi
Esisterebbe un'altra via, che potrebbe essere assai proficua, ma purtroppo è foriera di molte preoccupazioni e grattacapi per i frantoiani e quindi è per questa ragione poco praticata.
La sansa ha un buon potere calorifico e una più che soddisfacente resa in biogas, se miscelata ad altre fonti, ma il suo utilizzo come biocombustibile è ostacolato da un sistema normativo non sempre chiarissimo e da interpretazioni eccessivamente rigide.
Non è la prima volta che Teatro Naturale si trova a dover affrontare la questione. Ne è passato di olio sotto i ponti dalla sentenza della Corte di Cassazione del 2007 che escludeva la sansa dal novero dei sottoprodotti perchè soggetta alla disoleazione. Era di soli tra anni prima un decreto (Dcpm 8 ottobre 2004) che autorizzava la sansa esausta come biocombustibile. Poi è intervenuta la direttiva CE 98/2008, recepita dall'Italia solo il 4 giugno 2010, a mettere un po' di chiarezza. Sia la sansa vergine (art. 185 comma 2, Dlgs 152/2006), sia la sansa disoleata, purchè rispetti alcuni requisiti chimico-analitici (allegato X parte V, Dlgs 152/2006), sono utilizzabili quali biocombustibili.
Cosa succede se, però, la sansa subisce qualche tipo di manipolazione? E' sempre utilizzabile come biocombustibile se viene separato il nocciolino?
Una domanda solo apparentemente banale. Non possiamo infatti dare una risposta univoca in quanto siamo a conoscenza del fatto che alcuni funzionari pubblici, di province e di agenzie regionali per la protezione dell'ambiente, considerano anche solo la separazione del nocciolino dalla sansa quale un “trattamento”. Elemento discriminante perchè, in base al Dlgs 152/2006, un sottoprodotto, se subisce un “trattamento diverso dalla normale pratica industriale”, non è più tale ma diventa rifiuto.
Cosa si intende per “trattamento”? Purtroppo la normativa non è chiarissima e lascia margini che portano così a diverse interpretazioni da parte delle autorità. Accade così che in certe province la sansa privata del nocciolino sia considerata sottoprodotto e a pochi chilometri di distanza la stessa diventi rifiuto.
Il Dlgs 152/2006 è una norma quadro che quindi non comprende tutte le possibili casistiche riscontrabili nella realtà ma che dovrebbe fornire agli addetti ai lavori le basi per valutarle correttamente e ragionevolmente. Correttamente e ragionevolmente, tuttavia, non significa univocamente, purtroppo.
Si arriva così al paradosso che un'industria può distillare, raffinare o rifondere uno scarto poiché si tratta di attività che ricadono nella “normale pratica industriale” a prescindere dal fatto che essi intervengano su un materiale “vergine” piuttosto che decadente da un altro processo industriale finalizzato alla produzione di un diverso bene primario. Allo stesso modo, però, l'estrazione di un nocciolino, poiché non considerata “normale pratica industriale”, dà origine a un rifiuto, ancorchè il trattamento non serva a rendere compatibile sotto il profilo ambientale il sottoprodotto (allegato II, Direttiva 2008/98/CE).
In un simile contesto i vari tavoli istituzionali, regionali, stato-regioni e ministeriali, potrebbero fornire un prezioso contributo perchè, affrontando la questione in base alle esperienze maturate, potrebbero fornire linee di indirizzo utili alle imprese, ai professionisti, agli enti di controllo.
Linee guida che dovrebbero poter essere aggiornate anche in funzione dei progressi tecnici e tecnologici.
Romano Satolli
21 aprile 2012 ore 18:08E' una lampante testimonianza che le leggi debbono essere chiare , atte ad essere applicate e non essere interpretabili. Soprattutto considerando la mancanza di buon senso in molti nostri burocrati. A dire il vero, anche per molti giudici.