L'arca olearia
A favore del superintensivo le osservazioni di quattro docenti dell'Università di Bari
Un utile confronto, ricco di osservazioni e diversi punti di vista, per cercare di comprendere meglio come investire in olivicoltura, quale modello scegliere e a quali condizioni
04 giugno 2011 | Alberto Grimelli
Spettabile Redazione,
facciamo appello alla Sua cortesia per vedere pubblicate le osservazioni che seguono, per amore di verità, ma soprattutto a tutela del nostro impegno e della nostra serietà di ricercatori in un settore tanto delicato, quale quello dell’olivicoltura e dell’olio d’oliva. I miei colleghi ed io abbiamo letto gli articoli a firma di A. Grimelli riguardanti l’olivicoltura superintensiva e comparsi nei nn 15, 16 e 21 di Teatro Naturale.
Non sappiamo se Le è noto, ma noi di Bari siamo stati i primi in Italia a ritenere che il modello di olivicoltura superintensiva (a prescindere dalle varietà) potesse aiutare ad abbattere realmente i costi di produzione dell’olio extra vergine, nella salvaguardia della qualità (sempre a patto che si trovi un accordo durevole sul suo significato) e continuare così a tenere in vita l’olivicoltura nazionale. Tuttavia, più volte abbiamo scritto di guardare al superintensivo non come via obbligata, ma come opportunità, lasciando libero ognuno di fare tesoro o meno dei nostri suggerimenti.
Certo, le conclusioni cui è arrivato Grimelli non ci sono state di conforto: poi, leggendo più attentamente quanto da lui scritto ci sono sorte spontanee le seguenti osservazioni:
1. perchè fissare longevità dell’oliveto superintensivo ed intensivo? Per il superintensivo, il discorso sulla longevità, ammesso e non concesso che sia pregiudizievole (vedi pesco, uva da tavola ecc.) è ancora aperto; per l’intensivo dubitiamo che, con le densità di piantagione ipotizzate da Grimelli si possano raggiungere i 40 anni senza interventi correttivi;
2. i dati di produzione del superintensivo forniti coincidono coi nostri, resi pubblici su diverse riviste; al riguardo, la cosa più interessante è che 10 t/ha/anno di olive significano solo circa 6,0 kg/olive da parte di ognuno dei 1.670 alberi/ha (e non 1.600) e, se ci si attiene a quei livelli senza forzare per pura ingordigia le produzioni, forse ci si mette al riparo da fenomeni di alternanza e/o collassi produttivi;
3. la resa media industriale in olio da noi effettivamente ottenuta in un frantoio cooperativo di Gioia del Colle (Bari) da Arbequina, Arbosana e Koroneiki è risultata per più anni aggirarsi tra il 17% ed il 20%, ma diciamo pure che essa è stata pari al 17%, comunque e sempre ben 5 punti percentuali in più di quella (12%) indicata da Grimelli. Anche questi dati, ottenuti con coltivazione in irriguo, sono stati da noi resi pubblici, ma sono stati da Grimelli ignorati, oppure gli sono sfuggiti;
4. quando si impostano dei bilanci per oliveti con 400, ma soprattutto con 600 alberi/ha (corrispondenti grosso modo a sesti tra 6x4m , 4x4m, 5x3m) ci si deve anche porre la domanda di come sarà possibile entrare con le macchine per la raccolta quando l’oliveto, per giunta irrigato, avrà raggiunto l’età adulta; dubitiamo infatti fortemente che siano possibili accesso e movimentazione di una trattrice (per quanto piccola) portante vibratore (con o senza ombrello rovescio?). Non a caso, la corrente di pensiero prevalente e favorevole all’intensivo concorda ormai su densità di non più di 300 alberi/ha (sesto di 6,0m x 6,0m), con produzioni, a regime, tra 4,5 e 6,0 t/ha/anno di olive e non di 8,0 t/ha/anno: i dubbi aumentano quando nessun cenno viene fatto all’alternanza di produzione cui quegli oliveti intensivi con 400-600 alberi/ha andranno incontro;
5. quando Grimelli passa ai dati economici e parla di costi d’impianto di 13.000 /ha per un superintensivo, a noi basta replicare che in Puglia ci sono imprese che propongono (vedi pieghevole allegato) la realizzazione di superintensivo chiavi in mano per 8.000 /ha, certo guadagnandoci.
6. tra le voci di costo per il superintensivo Grimelli riporta 150 €/h per il noleggio della scavallatrice. Forse ci si arriverà, ma per ora siamo fermi a 200 €/h, pari a 400 €/ha e non a 300 €/ha. Per il superintensivo, il costo medio di coltivazione a partire dal 4 anno salirebbe dunque dai 1.700 €/ha ipotizzati a 1.900 €/ha (+12%);
7. sul prezzo medio dell’olio da varietà internazionali fissato (2,50 /kg) non muoviamo obiezioni; però, se teniamo conto delle rese industriali in olio da noi realmente ottenute (17% e non 12%) i ricavi nei primi tre anni salgono a 2.125 €/ha/anno (+225€ rispetto a 1.900 € di spese); dal 4°anno in poi a 4.250 €/ha/anno (+ 2.350€ rispetto a 1.900€ di spese);
8. quanto alla qualità degli oli, tutti sappiamo quanto extra vergine ligure, lombardo, veneto, toscano, umbro, marchigiano ecc. è fatto (stavamo per dire imbastardito) con extra vergini pugliesi, calabresi e siciliani e, più in generale, quanto olio extra vergine italiano è fatto (diciamo pure imbastardito) con extra vergini spagnoli, greci, tunisini, marocchini turchi, ecc. Preferiamo non addentrarci nel labirinto della qualità degli oli se non per dire che trattasi di prodotto che, ferma restando la inderogabilità della sicurezza alimentare, non deve piacere tanto a noi, quanto alla platea più vasta possibile di consumatori cui si intenda venderlo, e forse dal palato non altrettanto raffinato del nostro;
10. capiamo che il costo della vita, in Italia centro-settentrionale, è più alto di quello in Italia meridionale ed insulare; anche se contro il nostro interesse, onestà intellettuale c’impone tuttavia di segnalare che il costo d’impianto di oliveto intensivo forse non è 10.000€/ha, ma può essere comodamente abbassato, se non ai 2.900 €/ha del Prof. Tombesi (2006), almeno a 6.000-7.000€/ha;
11. dove i nostri pareri divergono massimamente da quelli di Grimelli, è quando questi riferisce di un costo di raccolta in oliveto intensivo di 1.200€/ha, perché parte dall’assunto che bastino 8 ore di noleggio del cantiere a 150 €/h per raccogliere la produzione di 1 ettaro di oliveto intensivo (a proposito, con quale resa percentuale di raccolta?). Se noi abbiamo ben inteso, per Grimelli (n 16 di Teatro Naturale) la raccolta in oliveto intensivo si esaurirebbe nel solo distacco dei frutti dagli alberi (o operazione di raccolta in senso stretto), effettuato da vibratore al tronco. In tal caso concordiamo coi tempi. Ma prima bisogna sottendere le reti agli alberi, quindi fare cadere i frutti col vibratore ed infine raccogliere i frutti caduti sulle reti e trasportarli fuori dal campo (con quelle che si chiamano operazioni complementari di raccolta). I tempi precedenti e seguenti la sola scuotitura vanno dunque conteggiati insieme con quelli di distacco. Ebbene, per quel poco che sappiamo, un cantiere così concepito non riesce a raccogliere più di 20-25 alberi/h (circa 3 minuti pianta). Di conseguenza, le ore occorrenti per raccogliere il prodotto pronto da portare al frantoio, da 400 oppure da 600 alberi/ha (sempre che sia possibile, dati i sesti) salgono da 8 a 16-20, per un costo totale tra 2.000 e 3.000€/ha, che fa salire il costo medio di coltivazione a partire dall’ottavo anno dai 3.100 indicati a 4.300-4.900€/ha/anno (da +39% a +58%).
Le correzioni da noi apportare ai dati di Grimelli, sembrerebbero dunque ribaltare le Sue conclusioni: in attivo la coltivazione dell’oliveto superintensivo, in passivo costante quella dell’oliveto intensivo. Con altre parole, la convenienza economica di un oliveto intensivo risulterebbe inferiore a quella di un oliveto superintensivo. Diciamo risulterebbe perché lasciamo a Grimelli il compito di completare il bilancio così come di rifare i conti ai colleghi Roselli e De Gennaro, che, a quanto ci risulta, fanno ancora parte dell’Università di Bari e non di Foggia.
Cordiali saluti
Prof. Angelo Godini
Prof. Francesco Bellomo
Dott. Salvatore Camposeo
Dott. Alessandro G. Vivaldi
Università degli Studi di Bari ‘Aldo Moro’
La replica.
Teatro Naturale fa informazione e compito principe di una testata giornalistica è riportare le notizie, magari creando quel dialogo e confronto che è lo spirito fondante di questa testata.
Per questa ragione, respingiamo le accuse mosseci dai docenti dell'Università di Bari di voler in qualche modo danneggiare il lavoro del mondo scientifico e della ricerca. Anzi, pubblicando ricerche e indagini, assolviamo anche al compito di trasferimento dell'innovazione tecnologica, presentando però diversi dati e diversi punti di vista, tutti ugualmente degni di rispetto, ivi compreso lo studio dei due economisti dell'Università di Bari che abbiamo ospitato lo scorso sabato (Intensivo contro superintensivo. Ecco i dati dell'Università di Bari) che evidentemente fanno emergere che anche all'interno dello stesso Istituto non esistono posizioni e conclusioni analoghe.
Saranno poi i nostri lettori a giudicare, a farsi un'opinione e, di conseguenza, a compiere le loro scelte.
Nel 2007 Teatro Naturale già si occupò del tema intensivo e superintensivo, dal lato prettamente agronomico, presentando opinioni differenti e, laddove possibile, dati. Ci meraviglia, quindi, che il Prof. Godini, che già all'epoca interpellato, si stupisca oggi del nostro approccio.
Non abbiamo cambiato il nostro metodo di lavoro.
Proprio perchè non abbiamo modificato il nostro approccio, partiamo da un quadro generale per poi scendere nel particolare.
Nel primo articolo del 16 aprile, Intensivo contro superintensivo. Facciamo un po' di conti, era chiaramente specificato in premessa: “I prezzi e i costi riportati sono quelli medi nazionali, rilevati secondo dati Istat, Ismea o attraverso ricerca nella bibliografia tecnico-scientifica. Ciascuno può riportare i dati e i valori del proprio territorio e trarne le dovute conseguenze.”
Si è voluto cioè dare un approccio tecnico-economico al confronto tra i due modelli, senza considerare, come avviene frequentemente con i venditori, i soli risultati a maturità ma durante tutta la vita dell'impianto.
E' ovvio, come in tutti i casi di confronto, più che guardare al singolo dato, sarebbe più utile riferirsi alla differenza di costi, produzioni o altro riferiti ai due modelli colturali, in quanto è tale differenza a incidere nella comparazione dei risultati economici.
E' ovvio che le condizioni si riferissero a oliveti modello, con tutti i pregi e limiti che tale metodica comporta.
Riguardo quindi alle osservazioni:
1. Longevità impianto
Fissare la longevità di un impianto, basandosi su dati ed esperienze, è una necessità economica. Come sicuramente i docenti di Bari ben sanno, senza questa convenzione, non si potrebbe stabilire la convenienza economica di un investimento che è inevitabilmente legata alla sua durata.
In questo caso la longevità dell'impianto superintensivo è stata stabilita in 15 anni perchè tale è indicata nella quasi totalità della bibliografia spagnola in merito a tale modello olivicolo e a cui ho fatto preferenzialmente riferimento, essendo il superintensivo nato proprio in Spagna.
Riguardo all'intensivo, 40 anni è una durata congrua, per la bibliografia italiana da me consultata, rispetto a un impianto sfruttato a finalità economiche, con la necessità di una raccolta meccanica con scuotitori.
2. Rese
Nel mio articolo ho fatto riferimento a dati generali, medi, italiani. Certamente anche una resa media, per il nostro Paese, del 13,5% è modesta ma tiene conto della tendenza, in atto nell'ultimo periodo, di una riduzione delle rese a causa di un intensificarsi delle piogge proprio nei periodi di raccolta.
In ogni caso ho notato che i docenti dell'Università di Bari non hanno contestato il fatto che la differenza di resa tra un impianto intensivo e uno superintensivo è di 1-2 punti. Come chiaramente indicato nell'articolo Superintensivo e intensivo: il confronto si accende: “in bibliografia, si riscontra, ed è comunemente accettata, una resa inferiore di 1-2 punti nel caso di un oliveto superintensivo. Le cause di questa variazione di resa sono essenzialmente dovute a due fattori: contenuto in acqua dell'oliva mediamente più elevato nell'oliveto superintensivo e, per lo stesso modello colturale, un maggiore ombreggiamento con conseguente minore inolizione delle drupe.”
3. Alternanza di produzione
A quanto mi risulta, da esperienza spagnole, australiane e di altre parti del mondo, l'impianto superintensivo è soggetto all'alternanza di produzione quanto quello intensivo. Un fenomeno, quello dell'alternanza di produzione, come mi insegnano i docenti baresi, che è legato sì alla fisiologia della pianta ma che può essere fortemente limitato grazie ad accurate pratiche agronomiche, in primis concimazione, potatura e irrigazione. Non è un caso se in alcune aree dell'Australia, a causa della siccità e della scarsa disponibilità idrica per l'irrigazione, le produzioni di impianti superintensivi siano dimezzate rispetto a quanto normalmente indicato in bibliografia.
4. Raccolta
In merito al cantiere di raccolta con scuotitore che, per 150 euro/ora, comprende trattore e scuotitore, con relativo operatore e due operai per la movimentazione delle reti, ho già fornito una risposta nell'articolo Superintensivo e intensivo: il confronto si accende. Evidentemente è sfuggito. Lo riporto di seguito: “Per quanto riguarda i costi di raccolta evidentemente di è una differenza sostanziale tra i due modelli: 300 euro/ha per il superintensivo contro i 1200 euro/ha per l'intensivo. In entrambi i casi mi sono riferito alla migliore delle ipotesi possibili. Un tempo di raccolta di 2 ore per ettaro per il superintensivo è infatti adatto nel caso di filari molto lunghi e poche necessità di manovre sui campi. Allo stesso modo una capacità di raccolta, con scuotitore e reti, di 50 (per 400 piante/ha) e 75 (per 600 piante/ha) piante all'ora è certamente molto elevato ma fattibile, stando a diversa documentazione bibliografia a e a mie personali esperienze sul campo in diverse regioni italiane tra cui Toscana, Puglia e Sicilia. Mi rendo conto che 1 minuto a pianta possa apparire inverosimile ma il tempo di scuotitura dei nuovi scuotitori su può quantificare in meno di 10 secondi con 20 secondi dedicati al posizionamento della pinza e 30 secondi al piazzamento del trattore (tempi riferiti a singola pianta). 20-25 piante al giorno, pari a 3 piante all'ora, si possono invece riferire al caso di raccolta con agevolatori, comprensivo di spostamento delle reti, oppure nel caso si prendano in considerazione alberi secolari che necessitino di scuotitura di ogni singola branca con conseguente allungamento dei tempi di posizionamento del trattore, oltre che di particolari cautele dovute alla presa della pinza sulla branca.”
Non mi risulta anche che vi siano differenze significative, a condizioni similari, nelle rese di raccolta tra macchina scavallatrice e scuotitrice al tronco. Per condizioni similari faccio riferimento soprattutto a varietà che vengano considerate idonee alla raccolta con scuotitori, escludendo quindi cultivar come la Moraiolo, la Coroncina e altre con elevate resistenze al distacco o un peso del frutto molto basso.
5. Costo d'impianto
Non dubito che sul mercato si possano trovare condizioni più vantaggiose rispetto ai 13000 euro ad ettaro riportati nel mio articolo. Evidentemente un dato attendibile visto che è stato utilizzato anche dai colleghi economisti di Bari che nel loro lavoro hanno indicato 12500 euro.
A parte la diffidenza per prezzi “a partire da”, che mi suonano sempre come operazioni di marketing utili per attrarre potenziali clienti, sono perfettamente a conoscenza che i costi d'impianto possono essere notevolmente abbattuti in ragione della estensione e dimensione dell'impianto. So, ad esempio, che i prezzi per le medesime piante, da un noto vivaio spagnolo, variano dai 1,30 euro/pianta ai 2,30 euro/pianta a seconda della fornitura, per un risparmio fino a 1600 euro/ettaro.
Inoltre, come precedentemente espresso, ai fini di un confronto è soprattutto la differenza di prezzo tra i costi di impianto del modello intensivo e superintensivo a condizionare il risultato finale e, mi pare, che una differenza costo nell'ordine del 30% venga considerata congrua.
Nel complesso, quindi, non mi pare che le osservazioni dei docenti Godini, Bellomo, Camposeo e Vivaldi siano tali da giustificare una revisione complessiva né del lavoro del sottoscritto, che può essere certamente affinato ma senza necessità di stravolgimenti, né tantomeno di quello degli economisti Luigi Roselli e Bernardo De Gennaro.
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10 giugno 2011 ore 16:11Gentile Occhinegro Massimo,
io credo che per proteggere il sistema Italia e quindi proteggere tutta la filiera olivicola dalla azienda agricola al confezionatore bisogna proteggere l'olio italiano. Sono stati fatti degli errori non indifferenti lungo tutta la filiera ma soprattutto nel settore della trasformazione e del confezionamento a danno di tutto il settore (aiuti comunitari non equidistribuiti, miscelazione oli di provenienza incerta, sofisticazione e quant'altro). Ciò ha contribuito al lento degrado del settore tutto. La mancanza di informazione al consumatore finale ha portato il consumatore stesso a preferire il prodotto economico rispetto a quello di qualità, a non percepirne la differenza. Ci sarebbe molto da cambiare su tanti aspetti, ma quello che non si deve cambiare è il nostro sistema colturale. Sarebbe la sconfitta dell'intero settore e la fine del nostro extra vergine di oliva.
Per ciò che riguarda le presentazioni, ritengo non siano necessarie in quanto le mie sono opinioni fatte senza etichettare od offendere nessuno. Tuttavia facendo seguito alla Sua richiesta e per rispetto della Sua persona Le dico che sono un imprenditore agricolo nonchè studente.
Angelo Delzotto
andrea Occhilupo
10 giugno 2011 ore 16:04per gli scettici del sistema venite in Puglia a visitare qualche campo di oliveto superintensivo.
massimo occhinegro
09 giugno 2011 ore 07:04Gentile D.A.,con tutta franchezza una buona base di partenza sarebbe che Lei si presentasse. Un dibattito aperto e chiaro lo sarebbe di piu' se lei comunicasse il suo nome e cognome per intero.
Nel merito le dico che anche se e' vero che c'e'stato un abbandono di produzione cio' non toglie che la produzione bassa si trascina da anni. Non deve fare riferimento ai numeri pubblicizzati da coldiretti o unaprol 700.000 o 550.000, ma ai numeri concreti che non vanno oltre alle 300.000 tonnellate. In aggiunta e'vero che occorre valorizzare ma e' anche vero che dobbiamo proteggere il sistema Italia che non e' costituito dalle sole imprese agricole. Il made in Italy dell' olio di cui ci si vanta purtroppo non e' quello venduto dalle sole imprese agricole. Non e' quello che fa il Pil.Quindi le decisioni da prendere devono riguardare il settore a 360*. Per fare questo occorre essere uniti e rendersi conto della situazione reale e concreta.
A. D.
08 giugno 2011 ore 18:34Io credo non sia ben chiara la mia opinione. Per allontanare la crisi dal settore oleario non è necessario combattere in termini di volume di prodotto finito. Bisognerebbe puntare sulla valorizzazione del nostro prodotto. Il calo di produzione in Italia negli ultimi 3 anni si è verificato per via dei risultati operativi negativi che hanno portato (e portano tuttora) le piccole aziende agricole a non procedere con le operazioni di raccolta perchè non conveniente. Sarei grato se qualcuno rispondesse alle mie precedenti questioni in quanto ritengo questa la sede opportuna per esprimere opinioni e credo ci si possa dilungare quantomeno per porre le linee generali di pensiero di chiunque voglia partecipare al dibattito, inclusi Professori e la Redazione.
massimo occhinegro
08 giugno 2011 ore 15:17Gentile D.A. , se lei leggesse la lettera , pubblicata su questo numero di teatro naturale, si renderebbe conto di quale e' la realta' italiana. L' UE ha certificato una produzione italiana dell' ultima campagna olearia , pari a poco piu' di 216.000 tonnellate di olio. Sulla base di questi numeri e considerando le vendite mondiali che sfiorano i 3 milioni di tonnellate, mi dica Lei se siamo o non siamo nicchia. La Spagma produce 1,3 milioni di tonnellate, ad esempio. L' Italia, quindi qualora non si intervenisse, regredirebbe ancora , diventando , in prospettiva il 4 ^ o 5^ Paese produttore. Per il resto sarebbe troppo lungo, in questa sede, spiegare cosa fare. Propongo al Dott Luigi Caricato di avviare un sano e tranquillo dibattito, non prima pero' di aver spiegato ancora una volta, con la chiarezza che lo contraddistingue, la situazione reale, per troppi anni taciuti dagli operatori del settore.
A. D.
07 giugno 2011 ore 21:41Essendo i secondi produttori mondiali di olive, non credo che il mercato del nostro extravergine sia un mercato di nicchia. Teoricamente ci sono le fonti per imporsi a livello mondiale. Cosa si intende per aggregazioni di terreni? Convertire superfici coltivabili? Bonificare aree non coltivabili? Quindi questo cosa comporterebbe? Creare due tipi di extravergine (uno da 2 euro proveniente dal superintensivo che competa a livello di prezzo a livello mondiale, e uno da 4 euro proveniente dal sistema di coltura tradizionale). Lei crede che sia tecnicamente possibile? Io dubito fortemente.. Le conseguenze sono facilmente intuibili..
massimo occhinegro
07 giugno 2011 ore 12:46Chiedo ufficialmente al mio amico Prof. Bernardo De Gennaro di intervenire. A mio parere non è giustificato sentirsi piccati in generale quando si cerca di parlare dei miglioramenti, se fattibili e se possibili dell'olivicoltura italiana. E' un dibattito aperto a tutti dove ovviamente gli aspetti tecnico-economici sono fondamentali. In ogni caso l'alto prezzo attuale del prodotto italiano, che ritengo assolutamente eccezionale e quindi non ripetibile nei prossimi anni, relega il prodotto italiano ad essere sempre più prodotto di nicchia nel mondo. Il gap è troppo elevato e non accettabile nell'ambito di una competizione delle imprese rivolto al mass market. Ci vogliono delle innovazioni, nel rispetto della morfologia del territorio, tenendo conto della peculiarità italiana di possedere più di 300 cultivar. Occorre però incentivare gli olivicoltori affinché si aumentino le superfici tramite aggregazioni di terreni. Occorre superare la frammentazione dell'offerta. L'innovazione ed il miglioramento sono nel giusto mix di un compromesso. Non rivoluzione ma cambiamento, è assolutamente necessario.
Duccio Morozzo
07 giugno 2011 ore 02:58Resto francamente allibito dalla aggressività dei pur competenti professori dell'Università di Bari. A chi state facendo la guerra? Perdonatemi, che crociata state conducendo? e in nome di chi? Mi sembra palese che l'intento di Alberto Grimelli era quello di creare un dibattito costruttivo chiamando a intervenire persone competenti che aiutassero a costruire un'immagine chiara sulle possibilità e sulle differenze dei due sistemi a confronto. Non era certo quello di postulare tutta la verità e nient'altro che la verità, cosa che invece emerge con forza nel vostro intervento-manifesto. è un piacere confrontarsi ma cerchiamo di moderare modi e maniere.Dobbiamo essere fieri di un confronto in casa nostra su temi così attuali mettendo da parte ogni interesse. La battaglia dell'olio in Italia non si perde sul campo dell'intensivo o del super intensivo: si perde,come in questo momento, nell'inutilità di un mancato confronto.
Duccio Morozzo
PS. vi scrivo da un oliveto di 1500 ettari superintensivi in Cile. Un campo stupendo, un olio stupendo, una fantastica gestione. Tutto qui ha un senso ben definito e un target chiaro. La stessa azienda (ammesso che si trovino 1500 ettari tutti insieme da noi) in Italia perderebbe ogni senso e direzione, non avrebbe motivo di essere. Qui è un marketing vincente da noi, è opinione puramente personale, sarebbe il colpo di grazia a un comparo che non merita di morire, la fine dell'immagine (oggi sbiadita ma viva) che per decenni ha dominato il mondo. Il super intensivo è il nostro cavallo di Troia. e non sono un nostalgico, mi piacciono le innovazioni intelligenti. Mettiamoci a competere sullo stesso piano copiando Spagna, Australia, California e Cile e l'Italia dell'olio sparirà in una bolla di sapone. è un pò come se le imprese italiane che lavorano la pelle cominciassero a copiare i modelli dei pellettieri cinesi per cercare di abbassare sul corto periodo i costi di produzione: i prezzi calerebbero ma che ne sarebbe dopo pochi anni del made in Italy e del nostro genio che ci ha resi grandi nel mondo? Ma questo è un discorso troppo lungo per un commento...
A. D.
05 giugno 2011 ore 14:34Vorrei porre una questione ai dottori e professori dell'università di Bari dato che questo tema mi è molto vicino. Sono anche stato a qualche conferenza sul tema sempre in Bari e sono rimasto sconcertato dalla completa indifferenza verso il nostro sistema tradizionale di olivicoltura e delle nostre cultivar (ci si lamentava dei vincoli che ci sono per non abbattere le nostre piante). In Puglia ci sono più di 5 milioni di piante di ulivo, moltissime secolari e bellissime oltrechè ampiamente produttive. Cosa ne facciamo? legna da ardere? Bisognerebbe concentrarsi per cercare di VALORIZZARE quello che abbiamo e farlo fruttare al meglio, difendere le nostre terre e non distruggerle. Sono fermamente convinto che il nostro sistema tradizionale (mediamente un 6x8 - 6x7)se subisse gli stessi trattamenti di un superintensivo produrrebbe in egual maniera o più del superintensivo stesso (si parla di fertirrigazione per 15000m3/ha per anno). Ma è risaputo, ciò pregiudica la qualità del nostro extravergine di oliva. Dove è largamente diffuso questo sistema, in Spagna, si producono mediamente 25q/ha, in Italia se ne producono 27. Non è sufficiente importare drupe estere o oli di provenienza incerta? Ora importiamo anche le cultivar! E' uno scandalo.
Ad oggi l'olio extravergine pugliese viene scambiato per 3.95 euro, l'andaluso picual per 2.08 euro. Cosa potrebbe succedere se si converte o si inizia a convertire il nostro sistema colturale? Vi lascio immaginare.. Non aggraviamo una situazione già di per se precaria e insostenibile.
PIETRO BARACHINI
04 giugno 2011 ore 12:49Sicuramente i confronti su due scenari diversi sono molto costruttivi sopratturo sul piano economico , ma non bisogna tralasciare il fattore piu importante , il patrimonio varietale che L'Iitalia possiede .
E' un bene unico al mondo dove persone da generazioni cercano in qualche modo di farlo sopravvivere contro una globalizzazione sempre piu immmnente degli olii mondiali.
Pultroppo o Perfortuna ad oggi moltissime varietà molto pregiate per il loro olio e storia culturale non si adattano al sistema Superintensivo.
Vincenzo Lo Scalzo
04 giugno 2011 ore 11:41Dal dibattito emerge una spiccata volontà e desiderio di avere a che fare con scenari reali e convincenti: la strada non può che portare al confronto positivo, dinamicamente rivedibile, nel a fuoco sottotemi e fattori critici che possano influenzare la fluttuazione delle variabili influenzate da scelte che dipendono da fattori locali, critici o imprevedibili, da analizzare per prendere contromisure con probabilità di successo.
E' questo il progresso auspicato dalla società civile di cui mi considero un convinto componente. Grazie a Teatro Naturale, Agorà di dibattito!
E.LS.
massimo occhinegro
10 giugno 2011 ore 19:02Gent.mo Sig. Delzotto, innanzitutto desidero ringraziarla per aver voluto pubblicare il suo nome, proprio per il fatto che lei esprime opinioni e non offende nessuno, non ha nulla da temere nella divulgazione del suo nome. Nel merito della questione poichè lei dovrebbe essere giovane (se è studente lo immagino) dovrebbe avere la mente libera da retaggi e pregiudizi; purtroppo da quello che scrive, mi sembra di poter sostenere che Lei, credo, si sia lasciato influenzare da altre persone che magari l'hanno preceduto nella gestione della sua impresa agricola. La invito quindi a liberare la mente ed a ricominciare partendo da zero. In merito al suo excursus sul passato mi limito a dire che non c'erano santi da una parte e diavoli dall'altra, ma persone che nell'uno e nell'altro caso, al fine di massimizzare il profitto fraudolentemente , si accordavano, spartendosi la torta: fortunatamente è storia che appartiene al passato ed in pochi ne parlano. Ovviamente, come in ogni campo ed in ogni questione nella vita non bisogna fare di tutta l'erba un fascio. Ritengo che il sistema dell'aiuto al consumo ed alla produzione prima ed alla produzione, oggi, abbia "legato" un settore, impedendo quella imprenditorialità di cui oggi abbiamo tanto bisogno. La stessa cosa, credo che sia avvenuta per le famose quote latte. Purtroppo se uno nasce tondo difficilmente diventa quadrato e quindi ancora oggi nel settore , sia a livello nazionale che a livello estero, (mi riferisco anche alla Spagna) sopravvivono persone che hanno una mente , diciamo deviata. Ma me lo faccia ripetere , sono solo casi isolati. Quindi occorre riflettere sul da farsi, sgombrando il campo dai pregiudizi, spesso sbagliati e fuorvianti, che sicuramente non aiutano a fare chiarezza. Solo oggi incominciamo ad avere qualche numero produttivo più reale, dopo anni in cui le produzioni italiane lievitavano a dismisura, per ovvi motivi. Credo che all'epoca ogni albero italiano dovesse produrre una quantità spropositata di olive e quindi di olio.
Passando al to do: occorre difendere il prodotto italiano, ma anche in questo è indispensabile operare un distinguo tra quello buono e quello meno buono, per usare un eufemismo. Alla fine emergerà che la produzione buona italiana , forse, è di poco superiore alle 150.000 tonnellate. Mi dica allora, se in Italia se ne consumano 600.000 o 700.000 tonnellate ed a parte ci sarebbe l'olio da esportare, da dove lo si prende?
Ciò che si sta facendo adesso è, a mio modesto parere da un punto di vista politico-economico, assolutamente sbagliato. Stiamo arrivando alla condizione di voler cedere le nostre imprese più importanti ancora italiane, in mani straniere. Lei non può neanche immaginare quante richieste in tal senso ci siano. Allora Lei mi deve dire se questa sarebbe o meno un'ennesima sconfitta ...in questo caso lo si direbbe del Made in Italy, nè più e nè meno di quanto avvenuto già in precedenza quando c'è stato il take-over delle varie Sasso, Carapelli e Bertolli. Cordialmente.