La voce dei lettori
Grande euforia per l'obbligo dell'origine degli extra vergini. Ma per cosa?
Una lucida e spietata analisi di Luigi Tega insinua dubbi sull'efficacia dell'iniziativa. Su chi ricadranno, infatti, le conseguenze di tale provvedimento? Come reagiranno i grandi gruppi industriali?
14 giugno 2008 | T N
Gentile dott. Caricato
Colgo lâoccasione che Lei mi da' (link esterno) per porre le mie considerazioni riguardo alla grande euforia conseguente lâapprovazione della commissione europea, della normativa italiana che rende obbligatoria lâindicazione dellâorigine degli oli extra vergini.
Tutti esprimono grande e commovente soddisfazione, leggo addirittura che il âdott Sergio Marini non lo si contiene più dalla gioiaâ, nessuno sembra scalfito da dubbio alcuno sullâefficacia di tale provvedimento.
Sentirsi un marziano per via della lontananza dalle opinioni comuni
Mi occupo di olio di oliva sostanzialmente da quando sono nato e spesso mi capita di sentirmi un marziano oppure di trovarmi come Alice nel paese delle meraviglie, tanto mi sento lontano dalle opinioni comuni.
Provo quindi a fornire un quadro della situazione e possibili scenari per il futuro dellâolio italiano che, come spesso mi accade, mi collocano allâopposto delle convinzioni generali.
Cerchiamo il più possibile di fornire un approccio sereno immaginando le possibili reazioni degli attori in campo che sono sostanzialmente tre: i piccoli frantoi e le azienda agricole, le grandi multinazionali e il cliente finale.
Le conseguenze che molti ignorano
La prima conseguenza successiva allâintroduzione della normativa riguarda principalmente i frantoi e le piccole aziende agricole e si concretizza in un appesantimento burocratico con lâinevitabile esposizione a un regime sanzionatorio particolarmente severo, quindi... un aumento dei costi.
Ovviamente lâaumento dei costi non è di per sé elemento negativo, se a questo si accompagnano prospettive di conquista di nuovi mercati o di prezzi maggiormente remunerativi, ben venga!
Analizziamo il fenomeno dal lato del cliente finale: a supporto di tanto entusiasmo câè la convinzione espressa da molti che il cliente è confuso, disorientato, quando trova sul mercato oli a 3.5 Euro, o addirittura meno, non ha gli strumenti per capire se si tratta di olio italiano realizzando un acquisto inconsapevole a danno del vero Made in Italy.
Occhio alla massaia!
Qualcuno ritiene che quando la massaia leggerà la provenienza greca o spagnola dellâolio a lei gradito, sdegnata, riporrà la bottiglia nello scaffale per gettarsi su un made in italy che nel frattempo, secondo gli entusiasti della norma, si sarà apprezzato di valore, raggiungendo un prezzo minimo di ⬠7/8 che sarà in grado di remunerare la filiera, gli agricoltori e... vissero tutti felici e contenti.
Vorrei ricordare che quella massaia già ora acquista noci californiane, ciliegie cilene, ananas del Sudafrica, pesce pescato in oceani lontanissimi tutto perfettamente dichiarato in etichetta e quindi pienamente consapevole.
Francamente desidererei che qualcuno mi spiegasse per quale motivo dovrebbe scandalizzarsi nellâacquistare un olio frutto di una combinazione di oli spagnoli, greci?
Penso invece che quella massaia acquista oli a 3,5 ⬠sperando, il giorno successivo di trovarne altri a ⬠2.9, totalmente disinteressata della provenienza per un semplicissimo quanto banale motivo: non attribuisce valore a quel bene.
Se così non fosse, la massaia in questione già oggi dispone di un buon assortimento in qualunque centro commerciale di oli Igp, Dop, Made in Italy (le cui vendite risultano stranamente in calo!!!??)... quindi se desiderasse acquistare un prodotto italiano lo farebbe già ora.
Come reagiranno i grandi gruppi industriali?
Lâaspetto che trovo comunque di maggior interesse riguarda lâanalisi delle possibili reazioni dei grandi gruppi industriali: come reagiranno?
Non mi ricordo quale azienda, ma già tempo fa veniva pubblicizzato un olio frutto dalla âmiscela dei migliori oli del Mediterraneoâ.
Eâ chiaro che se passa questa legge i grandi marchi dovranno adeguarsi, fare di necessità virtù e cambiare completamente le politiche di marketing, per competere ad armi pari con gli spagnoli, disinvestendo dal Made in Italy, esaltando non gli oli spagnoli o greci o turchi ma esaltando la capacità di realizzare blend particolari e assolutamente unici.
Non mi sento affatto di escludere lâeventualità che possa diventare fico o di moda consumare oli frutto di un 15% di koroneiki greca, un 55% di arbequina spagnola e un tocco di esotico (che non guasta mai) con un 15% di picholine marocaine.
Immaginiamo la pubblicità che da Siviglia si sposta sugli scenari di Marrakesh... Favoloso!!!!!!! Affascinante!!!!!! E pensiamo che si potrà contrastare tutto ciò solo con un 100% di Coratina di Cerignola?!
Il tutto potrebbe essere supportato dal ritrovamento di antichi testi che testimoniano come i navigatori genovesi si recavano fino alle coste del Marocco per acquistare il pregiato âOro di Marrakeshâ per poi miscelarlo agli oli liguri, da portare in dono in anfore pregiate alla corte di Spagna...
Ce la sentiamo di escludere che in un futuro non lontanissimo potrebbe diventare indispensabile aggiungere un poâ di olio Tunisino o Turco o Marocchino per far acquistare prestigio e immagine a un misero 100% olio italiano?
La domanda delle domande
Ammetto di aver forzato un poâ la mano per arrivare quindi al nocciolo vero del problema e alla domanda delle domande:
Il âfalso italianoâ crea un danno al âvero italianoâ o contribuisce ad alimentarne il mito lasciando comunque spazio a quello autentico?
Facciamo un esempio con la moda italiana: il marchio D&G o Armani o Valentino sono danneggiati dai falsi o i falsi ne alimentano il mito?
Girando spesso il mondo, sono rimasto sorpreso nel vedere in ogni angolo della terra adolescenti indossare magliette, ovviamente false, con il marchio D&G; questo crea un grave danno al marchio originale o contribuisce attraverso una forma di pubblicità totalmente gratuita allâalimentazione del mito?
Non mi sorprenderei se venissi a conoscenza che D&G destina parte dei suoi utili per finanziare le aziende che producono i falsi D&G.
E se i grandi gruppi disinvestissero dal made in Italy?
Ritornando quindi allâolio: noi piccoli produttori italiani che abbiamo avuto anche le nostre possibilità di vendere il nostro olio a Tokyo, New York, Londra siamo danneggiati dai marchi industriali o i marchi industriali ci hanno comunque spianato la strada esaltando il made in Italy (magari fasullo) lasciandoci comunque spazio di manovra ed occasioni da cogliere al volo?
E se i grandi gruppi disinvestono dal Made in Italy noi ne guadagnamo o ne perdiamo?
E se non riusciamo a collocare le nostre produzioni di qualità la colpa è degli industriali o della inettitudine e incapacità di organismi, consorzi, assessorati, mancanza di progettualità , di un piano olivicolo nazionale, di dispersione di ingenti risorse pubbliche in piccoli rivoli che invece della promozione alimentano politiche clientelari... e possiamo continuare.
Spaesati e senza linee guida affidiamo la sorte di un comparto allâennesimo provvedimento legislativo e tutto ciò non mi tranquillizza affatto... nonostante lâeuforia coinvolgente.
Mai come questa volta spero di aver detto un mare di caz..te.
La saluto cordialmente
Luigi Tega
link esterno
Ottimo, è così che vorrei tutti gli olivicoltori e frantoiani d'Italia: schietti, lucidi e liberi. Li vorrei esseri pensanti, in grado di snocciolare le questioni e di prendere posizione senza manifestare subalternità .
Li vorrei così i produttori, indipendentemente dal fatto che siano condivisibili o meno le loro posizioni. Ovviamente condivido punto per punto l'analisi che ha espresso Luigi Tega, e mi complimento con lui per l'estrema franchezza e il grande coraggio nell'uscire fuori dai vicoli chiusi dell'omertà .
Grazie dunque a Tega per la testimonianza. Ma gli altri, mi chiedo, dove sono? Perché non si pronunciano?
Non sarebbe bene prendere posizione oggi anziché lamentarsi domani?
Luigi Caricato