La voce dei lettori

AGRICOLTURA ASSISTITA?

Dall'azienda agricola Poggio Argentiera: "Sono letteralmente allibito ...". Quello che ha bisogno l'agricoltura oggi? "Uno scatto d'orgoglio e la volontà di affrontare con la schiena diritta le sfide di oggi e di domani

27 maggio 2006 | T N

Egr. Direttore Caricato,
ricevo periodicamente la sua newsletter e spesso ne trovo spunti interessanti di riflessione. Specialmente perché l'agricoltura è la mia professione, e ne conosco i liiti e le difficoltà, generali e particolari del mio settore: il vino.
Sono però letteralmente allibito dalla lettura di un articolo apparso nella sua ultima uscita, a firma del Sig.Alberto Grimelli, intitolato "AGRICOLTURA ASSISTITA? SI’ GRAZIE".
Dopo aver letto, non da puro idealista, ma da operatore del settore le tesi a sostegno di una agricoltura assistita che il sig. Grimelli ci espone, mi piacerebbe affrontarle punto per punto per cercare di apire una riflessione da un punto di vista liberale, proprio il contrario di quanto ci propone (oserei dire propina) il sig. Grimelli:

- il salario mensile di un lavoratore africano corrisponde al sussidio giornaliero di una vacca europea. La cosa non fa scandalo per il sig. Grimelli, in quanto alla fine con 5 dollari in Africa il potere di acquisto è diverso che in Europa, e quindi, vivaddio, dov'e'? Il problema. Non so se il sig. Grimelli sia mai stato in Africa, o abbia almeno visto alla televisione qual'e' lo "stile" di vita di un africano medio in paragone a quello nostro. Sembra a lui possibile continuare a mantenere lo status quo? Le cause del prodondo sottosviluppo dell'Africa sono molte, ma certo appare immorale il sostegno della UE alle esportazioni che fanno sì che i prodotti agricoli prodotti nella UE siano spesso diretti concorrenti di quelli agricoli dei paesi poveri. Solo grazie a immorali sostegni all'esportazione si configura il paradosso che prodotti che all'origine costano 1 dollaro possano essere rimessi su quei mercati ad una frazione di quel costo, rappresentando un "dumping", proprio quello di cui spesso si sente lamentare i nostri industriali a proposito dei prodotti cinesi.. Questo provoca in molti casi l'impossibilità si uno sviluppo di un economia di mercato, di agro industria e crisi dei reddito dei contadini di quei paesi, con le conseguenze economiche e sociali disastrose di cui siamo testimoni ogni giorno e che hanno effetti diretti anche nei nostri confronti, con la coseguenza di fare rientrare dalla finestra quello che, a forza, si è fatto uscire dalla porta. Quindi, abbasso i sussidi all'export ed il dumping immorale fatto a danno di paesi già in gravissime difficoltà.

-i nostri prodotti costano di più perché sono sottoposti a più controlli e sono più sicuri. E quindi? la soluzione non è certo quella di abolire i controlli, ma premere perché tutti i prodotti che noi importiamo e che vanno a finire sulle nostre mense abbiano la stessa garanzia, e quindi, alla fine gli stessi controlli. Non è certamente il problema nostro se i nostri prodotti sono sicuri (anche se qui si sprecano esempi di inefficienza che tutti conosciamo), bisogna premere ed esigere che anche gli altri lo siano. Non è abbassando l'asticella della qualità e della sicurezza che si vince la sfida dei mercati, ma portando anche gli altri lì, anche con sanzioni e divieti.

- "agricoltura = ambiente e territorio. Agli agricoltori viene chiesto di rispettare la natura, condizionalità e sostenibilità non sono più parole d’ordine ma obblighi che aumentano i costi di produzione." Anche qui vale lo stesso discorso di prima, con in più un riconoscimento da dare a chi opera in territori specialmente difficili e a rischio, come ad es. le zone montane, che devono essere sostenute anche con contributi specifici per chi fa anche opera di protezione del territorio. Ma questo è un capitolo che non può essere lasciato solo al contributo agricolo, è un grande argomento che deve coinvolegere la società. Contributi agricoli non fermano lo scempio ambientale dell'abusivismo e della costruzione selvaggia e senza regole sui greti dei fiumi, sulle zone ad alto rischio ambientale. La messa in sicurezza del territorio passa, anche dall'agricoltura, ma è anche un impegno della collettività. E' come lamentarsi che se si cominciasse a rispettare le regole in materia di edilizia allora i costi aumenterebbero.

- "Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca.
Non si può chiedere all’agricoltore di svolgere anche compiti e un ruolo sociale, di tutelare l’ambiente senza riconoscergli alcunché per questo impegno. E non basta una stretta di mano e una pacca sulle spalle." Giusta osservazione, ma questo non può essere fatto pensando di mettere sotto una campana di vetro l'agricoltura ed isolarla dai mercati. Oggi più che mai ci rendiamo conto di quanto questa pia illusione non sia, non solo non deisderabile per gli effetti perversi che questo produce: mancanza di efficienza, mancanza di professionalità, costi fuori controllo, prezzi al consumo impazziti, ma neanche possibile. Le forze che, in tutti i settori, regolano l'economia mondiale non possono essere controllate, nel medio e lungo periodo, né con dazi, ne con rendite di posizione, ne con barriere protezionistiche. Ce ne siamo resi conto negli ultimi anni in altri settori, che a lungo si sono appisolati e crogiolati nella falsa sensazione di sicurezza di poter mantenere lo status quo, ed oggi rischiano letteralmente di essere spazzati via. Parlo di settori importanti del "made in Italy", come il tessile, il calzaturiero, ma non solo. Già dieci anni prima gli industriali del settore sapevano che i dazi all'import verso la Cina sarebbero stati tolti a partire dall'anno scorso, ma incredibilmente solo pochi hanno saputo o potuto reagire per tempo.

L'agricoltura rischia di collassare proprio come quei settori se non prenderà l'abitudine ad essere esposta, seppur con tutta la gradualità necessaria, ai mercati. Tutti siamo interdipendenti ormai, e i protezionismi (che notoriamente si basano sulle sovvenzioni) hanno abbondantemente dato prova di non reggere, e spessissimo, anzi quasi sempre, a fronte della spesa di miliardi di euro non hanno neanche dato prova di reaggiungere i risultati che si erano proposti.

Un esempio ne sia la viticoltura: ogni anno il budget UE per l'intervento è di circa 1200 milioni di euro. Da molti anni questi soldi sono stati devoluti a regolazione dei mercati, con l'intenzione di ridurre il potenziale produttivo. Un famoso studio recentissimo, commissionato dalla UE ad un ente esterno ed indipendente, ha dimostrato come tutto ciò sia stato un fallimento, con la rimessa di miliardi di euro e il non raggiungimento dello scopo. Del resto come si può giustificare ancora oggi un contributo all'arricchimento dei mosti (per renderli più zuccherini, e quindi più di "qualità") e uno alla distillazione, per distillare le partite invendute. Ogni anno la maggior parte del budget va a questi due interventi, mentre unamicroscopica parte va alla promozione dei prodotti. In questo modo, centinaia di ettari vengono ogni anno coltivati solo per indirizzarli alla distillazione. Senza contributo queste produzioni si sarebbero dovute riconvertire anni prima ad altro, raggiungendo in modo più efficace e con minor spesa, gli obiettivi di partenza.

Quello che ha bisogno l'agricoltura oggi, in Italia e nella UE, non sono contributi e sovvenzioni, ma uno scatto d'orgoglio e la volontà di affrontare con la schiena diritta le sfide di oggi e di domani, con la consapevolezza che le barriere di protezione, oltre ad essere immorali, sono spesso inutili e dannose alla collettività.

Az. Agr. Poggio Argentiera
Loc. Banditella di Alberese, Grosseto


Risponde l'estensore dell'articolo: Alberto Grimelli.

Non era mio interesse scandalizzare i benpensanti né propinare alcunché.
Ho inteso semplicemente affermare quel che si dice soltanto a bassa voce, tra gli addetti ai lavori, quasi vergognandosene: l’agricoltura dei Paesi industrializzati non può resistere da sola.
So bene quali siano le condizioni di vita in Africa e in altri Paesi del Terzo Mondo, so anche che la Banca Mondiale fissa in 2 dollari/giorno la soglia di povertà nelle nazioni sottosviluppate. Tale soglia è più che quintuplicata per i paesi industrializzati.
Molti discorsi riguardo al Terzo Mondo sono impregnati di troppa demagogia e troppo populismo, nebbia volta a nascondere la vara domanda: come li aiutiamo? Quale modello di sviluppo?
Un problema molto complesso e dalle mille sfaccettature. L’Occidente ha provato varie soluzioni, dagli aiuti monetari diretti, all’invio di derrate alimentari e generi di prima necessità, a programmi mirati e locali di crescita e sviluppo. Se in Africa abbiamo fallito, in altre regioni registriamo un boom economico senza precedenti. India, Cina e sud est asiatico (3,5 miliardi di persone) stanno vivendo una stagione di crescita esplosiva di cui stanno beneficiando anche le loro popolazioni. Secondo il premier cinese il reddito pro capite cinese, oggi di 1000 euro/anno, triplicherà nei prossimi dieci anni. Sono felice per loro, un po’ più preoccupato per la nostra salute. La Cina è oggi la principale produttrice mondiale di mele Fuji, importate anche in Europa a prezzi stracciati. Queste mele subiscono 17 o più trattamenti durante il ciclo produttivo, alcuni di questi interventi vengono eseguiti con principi attivi a noi sconosciuti, prodotti dalla loro fiorente industria chimica. La posizione della Comunità europea è chiara, espressa per bocca della Commissaria Fischer Boel “non possiamo obbligare altri a produrre secondo i nostri standard”. Risultato? Apriamo le nostre frontiere e moltiplichiamo i provvedimenti di importazione in deroga alle nostre restrittive leggi igenico-sanitarie. Si tratta di realismo da parte dei nostri governanti che sanno bene che è, di fatto, ormai impossibile controllare scrupolosamente il massiccio afflusso di prodotto extra Ue. Servirebbero migliaia di persone, con costi esorbitanti. Nel frattempo la Cina è divenuta la terza produttrice mondiale, per volume e valore, di prodotti ortofrutticoli.
Come fare a competere in queste condizioni? “Le forze che, in tutti i settori, regolano l'economia mondiale non possono essere controllate, nel medio e lungo periodo, né con dazi, nè con rendite di posizione, nè con barriere protezionistiche”, sono parole sue.
La nostra agricoltura non è in grado, strutturalmente, di reggere l’urto di simili concorrenti. Non è questione di orgoglio e volontà, ma di costi di produzione. E’ già noto che, a livello comunitario, il numero di aziende agricole è in continua discesa. Le quotazioni delle principali commodities sono in continuo calo.
Il protezionismo, concordo con lei, non funziona. Ne ha dato prova la storia. Tuttavia il protezionismo non si basa sulle sovvenzioni ma semmai sui dazi e sulle quote all’importazione.
Le sovvenzioni sono, e potrebbero essere, un’altra cosa. Spariranno i sussidi all’esportazione (decisione già presa all’ultimo Doha Round), di cui gli agricoltori non hanno mai beneficiato, ma che hanno ingrossato soprattutto i portafogli di grandi grossisti e commercianti.
L’agricoltura continua ad aver bisogno di aiuto, ma come? Le strade percorribili sono due:
- massicce campagne promozionali affinché il consumatore riconosca un cospicuo plusvalore alle merci made in Ue
- aiuti finanziari diretti alle aziende agricole
La Commissione europea ha esplorato, negli ultimi anni, entrambe queste vie. La via della qualità e del premio di prezzo non ha sortito, nella maggior parte dei casi, gli effetti desiderati. E’ noto infatti che il delta di prezzo esistente tra il prodotto standard e quello di qualità certificata (Dop, Igp, biologico) si è andato via via riducendo. I prodotti biologici, ad esempio, nei supermarket, qualche anno fa, spuntavano prezzi del 30-40% superiori rispetto agli altri, oggi il divario è del 10-20%.
La società, ne abbiamo discusso in diverse occasioni su Teatro Naturale, non riconosce ancora il ruolo sociale ed ambientale del settore agricolo. Vive gli sforzi e i sacrifici del contadino per fornirgli un prodotto salubre e un ambiente “pulito” come qualcosa di dovuto, da non remunerare né premiare. Per cambiare una simile mentalità, sempre che ci si riesca, occorreranno anni. Nel frattempo? Possiamo lasciare che le nostre campagne vengano nuovamente abbandonate, siano esse territori difficili o meno? Possiamo accettare immense distese di terreni incolti? Simo sicuri che tutto questo non avrà riflessi negativi sulle “bellezza” dei nostri luoghi? Non ne risentiranno altri settori, ad esempio quello turistico? Non rischiamo di perdere anche parte della nostra storia e cultura, non solo gastronomica?

A.G