La voce dei lettori

“L’extra vergine? Frutto di una legge perversa”

“L’extra vergine? Frutto di una legge perversa”

Le celebrazioni dei 50 anni dell’extra vergine hanno risvegliato gli animi. “L’olio d’oliva è un grande business per tutti ma non per gli olivicoltori”, lamenta il produttore Ampelio Bucci

16 aprile 2011 | T N

Dopo una opportuna e necessaria pausa, al fine di evitare eccessi di attenzioni sull'onda dei festeggiamenti per i 50 anni dell'olio extra vergine di oliva, riportiamo in questo numero 15 di Teatro Naturale due robuste e pulsanti testimonianze rese da due nostri lettori, a margine di quella storica celebrazione di cui siamo gli artefici.

Ci si rende conto in tal modo che vi sono due distinti atteggiamenti, uno costruttivo - ed è il caso della lettera di Giuseppe Stagnitto - e l'altro, a firma del produttore Ampelio Bucci, marcatamente accusatorio e ostile.

Cosa resta da dire? A nostro parere quanto è avvenuto in passato va sempre contestualizzato, e il migliore atteggiamento da assumere in questi casi è di guardare al futuro con occhi nuovi, senza volontà di recriminare nulla. (L. C.)

 

 L'INTERVENTO DI AMPELIO BUCCI

 

Allora - negli anni ’50 e ’60 - si chiamavano “leggi truffa”, quelle leggi che, fatte a favore di qualcuno (generalmente pochi), erano contro altri (generalmente tanti).

Questa (la legge 1407 del 13 novembre 1960, n. d. R.) fu vissuta dai tanti come una di quelle leggi. A favore, manco a dirlo, di commercianti e industriali dell’olio. E contro gli agricoltori che coltivano le olive e contro i consumatori che acquistano e consumano l’olio di oliva.

Olio d’oliva che da sempre (che vuol dire proprio sempre, visto che la colomba riporta a Noè un ramoscello di olivo) si fa in una sola maniera: spremendo le olive. Poi può essere più buono o meno buono, rancido o troppo acido, commestibile o lampante (cioè buono solamente per i lumi ad olio, ma oggi l’olio lampante non c’è più perché – miracolo – è diventato anch’esso commestibile attraverso raffinazione chimica ad esempio con benzopirene!).

In questa legge (la 1407 del 13 novembre 1960, n. d. R.), con una fantasia perversa (ma anche con un obiettivo perverso) l’olio buono fu chiamato extra vergine (è inutile fare del sarcasmo sul significato letterale delle parole). L’obiettivo era quello di confondere le idee dando anche agli oli meno buoni nomi che nascondessero queste qualità inferiori. Infatti si usarono solo aggettivi positivi, molto positivi.

Infatti se si legge la legge originale (vedere su Internet: Legge 13 Novembre 1960, n. 1407) si trova (art.1) la seguente classificazione: olio extra vergine di oliva; olio sopraffino vergine di oliva; olio fino vergine di oliva; olio vergine di oliva. E poi (art.2) olio di oliva rettificato; olio di sansa di oliva rettificato.

Quanti oli d’oliva! può essere tutto chiaro a un consumatore?

Poi alcune di queste dizioni forse sono scomparse o almeno il consumatore non le trova in vendita; ma nella legge c’erano e si leggono ancora.

Adesso sappiamo che quella legge fu fatta dai commercianti. Ma gli industriali dell’olio dovevano essere d’accordo, anche perché in quegli anni era presidente di Confindustria (attenzione non della Confagricoltura) Angelo Costa, il proprietario di olio Dante, uno degli oleifici più importanti d’Italia, poi ceduto a Nestlè e ultimamente riceduto da Nestlè ad altri.

Angelo Costa fu presidente di Confindustria addirittura con due mandati: dal 1945 al 1955 e dal 1966 al 1970.

Ma non è tutto qui: perché (non so con quale legge, forse con la stessa) fu stabilito anche che l’ “olio di oliva extra vergine italiano” poteva essere fatto anche con olio o olive non italiani ma provenienti evidentemente dai paesi nei quali il costo del lavoro era più basso.

“Many italian olive oils prove to be Italian only in name”, titolò a caratteri cubitali nel maggio 2004 l’International Herald Tribune e con questo gli italiani fecero ancora una volta la figura degli imbroglioni.

Tutto questo è continuato così per decenni. Oggi sembra che qualcosa stia cambiando. Si può scrivere “olio 100% italiano”, si può scrivere “olio comunitario” (che significa che non è italiano), si può scrivere “migliori oli mediterranei” (che significa anche che non è nè italiano nè europeo).

Ma nessuno scrive la vera provenienza (es. 30 % tunisino, 20 % siriano, ecc.).

Anche la comunicazione continua a poter essere ingannevole o almeno non chiara per il consumatore. Ad esempio sull’olio “Il Frantoio” di Carapelli (azienda oggi di proprietà del gruppo spagnolo Sos Cutrera) c’è scritto: “Carapelli opera in Toscana dal 1893. Da allora seleziona con cura solo i migliori oli extravergini di oliva mediterranei…”

Il consumatore che eventualmente legge cosa capisce? Carapelli nel 1894 importava già oli mediterranei?

Questo è solo uno degli esempi fumosi che il consumatore trova scritto sulle bottiglie.

Morale: tutto è stato e resta molto confuso (appositamente si direbbe).

I commercianti e gli industriali hanno fatto grandi business con l’olio d’oliva in questi cinquant’anni.

L’olio d’oliva è un grande business per tutti ma non per gli olivicoltori, soprattutto italiani che sono in crisi perché il loro prodotto non è pagato a prezzo accettabile.

E il consumatore che conta poco, non sa.

E i poveri olivi? Dope centinaia di anni sono diventati alberi decorativi nei giardini delle villette della Brianza.

Che brutta fine.

Ampelio Bucci

24/11/2010

 

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