La voce dei lettori

Manifesto dell’olio, rischio ambiguità e pericoli

Manifesto dell’olio, rischio ambiguità e pericoli

Un lettore, Gigi Mozzi, ci scrive dalla Liguria per esprimere le sue perplessità riguardo ai dieci punti espressi dal nostro Manifesto per il risorgimento dell’olio italiano. E introduce la distinzione tra il comparto dell'extra vergine naturale e quello dell'extra vergine non naturale e/o rettificato (sic!). Al che, Luigi Caricato risponde punto per punto

09 aprile 2011 | T N

Con grande rispetto per Teatro Naturale, che è probabilmente l'unica occasione di cultura, di scambio e di confronto su un tema che è "passione" prima ancora di essere "professione": con sincera ammirazione per Luigi Caricato, che è certamente protagonista di un impegno a cui tutti dobbiamo riconoscenza: con serena e modesta determinazione, desidero portare alcuni commenti al Manifesto per il Risorgimento dell'Olio Italiano.

Il documento è interessante e non può non essere letto con attenzione: un Manifesto offre spunti e propone orientamenti generali che devono diventare il pensiero comune, la base di tutti i confronti, il panorama entro cui collocare gli attori, il contesto di riferimento che qualifica tutte le posizioni.

Per questo sono rimasto colpito da alcuni passaggi che, avendo l’ambizione di essere ecumenici, rischiano invece di essere ambigui e pericolosi, proprio nei confronti degli obiettivi che il Manifesto si pone.

I continui rimandi tra olio extra vergine e non, sono così puntuali, così sistematici e così costruiti
che, alla fine, diventano sospetti e sollevano più questioni di quante non vorrebbero risolverne.

Ecco le mie perplessità.

Dire che il Manifesto nasce a difesa della purezza e genuinità (punto UNO) e subito dopo dire che tutte le categorie di oli meritano eguale considerazione - extravergine, vergine, olio di oliva e sansa - (punto DUE) significa attribuire, implicitamente, a tutte le categorie la stessa qualifica di purezza e genuinità: non so se è questa l'intenzione, ma si capisce così.

Dire che la provenienza dell'olio da olive è agricola (punto TRE) e per questo motivo, sostenere che la differenza tra "prodotto agricolo tal quale" e "prodotto agricolo lavorato" è marginale, o addirittura inesistente, mi pare veramente difficile da accettare: siccome il vero significato di "tal quale" è "naturale"
e siccome il vero significato di "lavorato" è "rettificato", dobbiamo convenire che le differenze sono radicali.

Dire che "il comparto olio di oliva raccoglie ed esprime in s'è un corpo unico con varie anime e identità" (punto QUATTRO) sottende una posizione in apparenza corretta e rispettosa di una situazione di mercato complessa: purtroppo l'affermazione si dimostra palesemente equivoca perché viene utilizzata per sostenere l'assunto che "è impensabile concepire un comparto che si presenti con un corpo frammentato e diviso,
se non addirittura in aperta lotta fra le varie parti di cui si compone".

Questo è un tema centrale che capovolge i fatti: semmai, parlerei di un'unica anima con corpi diversi, ma soprattutto mi meraviglia lo stupore di chi fa finta di non avere avvertito che "la lotta tra le varie parti" è in corso da molto tempo e, per il momento, ha lasciato sul campo i cadaveri di molti produttori di prodotti agricoli "naturali", ha costretto in malattia molti altri e, del resto, come tutti hanno modo di constatare,
il cosiddetto prodotto agricolo “naturale” non se la sta passando affatto bene.

Il problema dell'extra vergine non è l'olio di semi e nemmeno il burro o la margarina: il problema dell'extra vergine nasce dalla impossibilita (e dalla incapacità) di proteggere il territorio, dalle invasioni di campo degli amici e dei vicini.

Chissà chi sono quei cattivoni che, come dice la premessa al Manifesto, hanno "svilito sul piano commerciale l'extravergine, con prezzi di vendita sotto i 2 euro la bottiglia da litro e continue promozioni sottocosto" forse alludendo come al solito alla Grande Distribuzione (che invece fa bene il suo mestiere):
non rimangono da interrogare che gli amici e i vicini di comparto, forse loro ne sanno qualcosa.

Mi sembra ridicolo minacciare Davide di non fare guerra a Golia, dopo che quest'ultimo, non contento della sua forza e della sua superiorità, è riuscito ad appropriarsi anche dei pochi sassi che restavano ed ha provveduto a sequestrare l'unica fionda in circolazione.

Al punto CINQUE un solo commento: mi auguro che le "continue innovazioni" attese “per la salvaguardia e tutela del tanto celebrato spirito della tradizione” non riguardino anche i prodotti agricoli “lavorati”, altrimenti di rettifica in rettifica, capace che ri-diventano prodotti agricoli naturali.

Al punto SEI: credo che sia chiaro a tutti che, al di fuori di una ristretta cerchia di amici, l'extra vergine di oliva non ha immagine di prodotto di qualità superiore e irreprensibile.

Il consumatore non conosce la differenza tra extra vergine e olio di oliva: non sa che il primo è un prodotto naturale e l'ultimo è un prodotto rettificato.

Non sa che il primo è un prodotto artigianale (roba da PMI, con fatturati modesti) e l'ultimo un prodotto industriale (proveniente da aziende che fatturano centinaia di milioni di euro).

Naturalmente, le differenze tra il comparto extra vergine naturale e il comparto extra vergine non naturale e/o rettificato sono così tante (considerando solo l’ottica del consumatore: specialità contro commodity, qualità contro prezzo, gastronomia contro sussistenza, progetto alimentare contro abitudine, attenzione contro noncuranza, intenzione salutistica contro trascuratezza,…) che non è nemmeno il caso di parlarne, se non per ripetere che siamo di fronte ad una nicchia di mercato da non confondere con altre sottocategorie.

La proposta di isolare ulteriormente l'extra vergine (punto SETTE) creando una categoria superiore è illuminante, perché svela senza dichiararlo, lo stato di precarietà e di fragilità attuali dell’extra vergine a cui sembra che il Manifesto, ritenendo inutile il recupero del segmento, così com'è, voglia decretarne una fine anticipata.

La mia esperienza nel mondo della comunicazione mi fa pensare che la definizione "succo", non sia così esente da rischi di sovrapposizione e di contaminazione con il vissuto del "succo di frutta", che non è un prodotto così naturale, come vuole e deve essere l'extra vergine (che casomai, si avvicina più correttamente alla "spremuta").

Mi sono chiesto anche perché nel Manifesto non si fa stranamente cenno ad una categoria che già esiste e si impegna faticosamente ma meritoriamente, per dare dignità all’extravergine italiano la Dop.

Mi chiedo se non è il caso di aprire una discussione con FederDop per capitalizzare il lavoro che è stato svolto e condividere quello che è nei programmi.

E arriva il punto DIECI che, in ordine di priorità, se li mangia tutti.

Senza che mai venga citato, qui si parla di mercato: di strategia, di politica di categoria, di gamma, di prodotto.

Secondo i princìpi del Manifesto, in questo grande mercato dovremmo continuare a chiamare "agricolo" un prodotto che viene elaborato e rettificato (perché non commestibile), e dovremmo immaginare che il necessario intervento chimico possa ripristinare qualità perdute, come se si trattasse di un semplice processo di filtraggio di non meglio definite impurità.

Ma il nocciolo del problema è un altro: è, appunto, il mercato.

Prima di parlare di olive, di territorio, di specificità, di frantoi, di figure professionali, di categorie di prodotti, di tecnologie produttive e di processi di trasformazione, di logiche e di assetti competitivi, dovremmo parlare di consumatori: il mercato nasce da loro.

Le olive e tutto il resto fanno il prodotto: il mercato lo fa il consumatore.

La vita del prodotto non finisce fuori dalla fabbrica oppure sullo scaffale del punto vendita: la vitalità del prodotto si esprime quando è nella cucina e viene impiegato per preparare i cibi e le cotture e quando è sulla tavola e viene impiegato per condire.

Perché il consumatore è così importante: perché è il soggetto centrale del sistema mercato, tutto ruota intorno a lui, è lui che determina, con i suoi comportamenti, la dimensione del mercato, è lui che accetta o rigetta la politica dei prezzi, che risponde alla attività promozionali, è lui che attribuisce l'immagine alle aziende e ai prodotti.

Dovremmo smetterla di confondere le parole con le cose: attribuire ad un prodotto una quota di mercato è una convenzione “contabile” e una comodità descrittiva: perché in realtà è il consumatore che fa le quote.

Dire che un prodotto ha una immagine è una attribuzione impropria: è il consumatore che attribuisce l’immagine ad un prodotto, la modifica, la conferma.

Se è il consumatore che fa il mercato, diciamo che il mercato dell'olio è confuso, pasticciato, disordinato, disorganico, mistificato perché è il consumatore ad essere ingannato, deviato, manipolato: con i prodotti commodity che si fingono specialità, con i prodotti specialità che vengono trattati da commodity, con industrie che si mascherano da artigiani e artigiani che si pretendono industrie, con trucchi che non sono solo chimici o sensoriali, ma sono anche trappole visive, espedienti culturali, malizie strategiche.

Senza voler offendere nessuno, potremmo dire che troppe poche aziende hanno mantenuto il "patto con il consumatore" quel quanto che basterebbe per costruire, sostenere e proteggere un mercato.

Ai margini di questa confusione, il mercato dell’olio extra vergine agricolo naturale (il segmento, il comparto, il settore, il distretto, il ramo, o come volete chiamarlo) è rimasto una piccola nicchia e non pretende di essere altro: può invece pretendere che altri non approfittino di alcuni aspetti propri della nicchia rubandone (pardon, impiegandone) le caratteristiche principali.

Per intenderci, l’attuale invasione di campo, sta paralizzando il sistema produttivo italiano dell’extra vergine naturale e sta cancellando le piccole organizzazioni produttive che hanno rappresentato il meglio della capacità distintiva del nostro Paese di fronte a tutto il mondo.

Non vorrei mai che il Manifesto per il Risorgimento dell'olio Italiano, nella meritoria operazione di "rilancio degli oli di oliva e dell'intero settore, ... senza creare smarrimenti o conflittualità tra i vari attori", iniziasse le cerimonie per il funerale del caro, vecchio extra-vergine, ormai pronto per essere inviato nel Paradiso degli Eroi e santificato come extra-terreno.

Gigi Mozzi

Ruta di Camogli, 3 aprile 2011

 


RISPONDE LUIGI CARICATO


Oh! Ecco finalmente un bell’intervento, chiaro, preciso, capace di scendere nel dettaglio e di problematizzare quanto è stato esposto nei dieci punti del Manifesto per il risorgimento dell’olio italiano. Già abbiamo letto la posizione di Ettore Franca, il presidente di Olea, che in questo numero riprende nuovamente la parola per rispondere ai commenti dei lettori riporati in coda all’articolo.

Veniamo a noi. Le sue considerazioni le ritengo molto importanti perché aprono una nuova strada tra coloro che a vario titolo si occupano degli oli di oliva. Le sue osservazioni esprimono quanto ho da sempre desiderato: sviluppare una circolarità di pensieri. Ed è quanto continuo ancora ad augurarmi, che Teatro Naturale sia a tutti gli effetti ciò che manca non solo al comparto oleario, ma a tutta l’agricoltura: il confronto dialettico, indirizzato a “una discussione franca e aperta”, senza ipocrisie.

L’ambizione di essere ecumenici è la mia aspirazione continua: non accetto infatti che vi siano fratture e divisioni, soprattutto quando nelle intenzioni c’è una volontà comune e condivisa: nel nostro caso, salvaguardare un prodotto come l’olio ricavato dalle olive, ma anche assicurare una equa remunerazione agli agricoltori che ci mettono l’anima e non sempre ricavano il giusto, quanto meriterebbero per il loro impegno anche sociale nel mantenimento di un paesaggio che equivale a una buona tenuta del territorio.

Occorre dunque lavorare per il bene comune, con questa vocazione ecumenica, pur consapevoli che la strada da percorrere sia alquanto impervia e non priva di rischi e laceranti amarezze.

E’ necessario provarci comunque, sempre e in ogni caso, altrimenti non si costruirà nulla di stabile se non si tenterà – almeno fin dove è possibile – di appianare le differenze di opinioni, ma soprattutto di visioni. Puntare ad armonizzare le dinamiche del comparto oleario mi sembra perciò l’unica soluzione praticabile per uscire da una crisi dell’olivicoltura che non conosce tempo.

Lei è di Ruta di Camogli, conoscerà senz’altro il grido di dolore del suo conterraneo Giovanni Boine (1887-1917), quando scriveva resoconti straordinariamente lucidi e drammatici intorno alla crisi dell’olivicoltura. Ecco – da allora, ma anche da prima di allora – non è cambiato nulla. Abbiamo solo la fortuna di avere oli di una qualità eccelsa, in virtù di una tecnologia e di uno studio dell’agronomia e dell’elaiotecnica che ha compiuto passi da gigante. Le problematiche legate ai bassi margini di gudagno sono invece rimaste le medesime di allora, con in più la beffa di avere l’alta qualità a prezzi a dir poco incongruenti. Segno che si sono trascinati i problemi di ieri fino ad oggi, e che nessuno nel frattempo ha voluto o saputo risolvere.

Ad amareggiarci e sconsolarci ulteriormente, resta il fatto che nel corso degli ultimi decenni abbiamo usufruito di cospicui finanziamenti, i quali, gestiti con eccessiva leggerenza e molto spesso fuori dal binario dell’etica, non hanno portato alcun giovamento.

Di conseguenza, quella cui assistiamo ora, è una crisi strutturale che, se non risolta negli anni a venire, si perpetrerà all’infinito con danni irreparabili. Ed è per questo, al fine di rendere consapevole un comparto che anziché unirsi si divide, ho sentito – abbiamo sentito – la necessità e l’urgenza di stilare un Manifesto quale primo passaggio utile per una rinascita prima di tutto etica, in secondo luogo economica e sociale.

 

Come far superare le perplessità

Punto UNO e DUE. Non c’è alcuna contraddizione quando nel Manifesto viene posta in risalto la coppia “purezza e genuinità”, rispetto all’affermazione che tutte le categorie della gamma degli oli di oliva meritino eguale considerazione.

E’ lei che parte da un presupposto sbagliato: perché considera ciò che non è olio vergine, qualcosa che non merita eguale dignità. E’ evidente che esista una scala gerarchica tra i vari oli, non c’è dubbio; ma chi si trova in basso non deve essere per questo motivo l’equivalente dei paria, ovvero gli ultimi, i fuori casta, gli esclusi delle quattro caste indiane. Si tratta sì di prodotti differenti, ma sempre frutto di una materia prima comune.

 

Punto TRE. Riguardo alle espressioni “prodotto agricolo tal quale” e “prodotto agricolo lavorato”, è lei ad attribuire al Manifesto ciò che il Manifesto non riporta. Non può attribuirci pensieri e intenzioni che sono formulati solo nella sua testa.

Lei scrive che noi riteniano la differenza tra prodotto tal quale e prodotto lavorato “marginale, o addirittura inesistente”, aggiungendo che tutto ciò le sembra “veramente difficile da accettare”. Ma è solo una sua costruzione fantasiosa. La differenza tra prodotto tal quale e prodotto lavorato esiste, ma non esiste alcuna differenza nella materia prima di partenza: l’oliva. Le pare poco?

 

Punto QUATTRO. Riguardo all’idea di un comparto dal “corpo unico”, da noi tanto auspicato, le sue osservazioni – mi spiace doverlo evidenziare – mi sembrano alquanto confuse e macchinose, anche se non escludo l’ipotesi che sia io a non comprendere le sue osservazioni, sia ben chiaro.

Quando lei introduce l’espressione “prodotto agricolo naturale” mi lascia interdetto, perché con tale esplicita intenzione presuppone che vi sia un prodotto evidentemente “industriale” e “non naturale”. Sta qui il suo errore di fondo. Tutto ciò che deriva dall’oliva è un prodotto della natura, che sia un olio vergine o che sia un olio lavorato. La sua, pertanto, è una posizione dichiaratamente ideologica. La rispettiamo, perché lei ha piena libertà di esprimere una propria personale posizione, ma resta tuttavia il limite di essere macchiata da una connotazione ideologica. Nel nostro manifesto noi non prendiamo una posizione, da una parte o dall’altra della barricata, siamo al di là delle appartenenze, ci interessano le sorti degli oli di oliva nell’intera gamma, perché tutto ciò che proviene dall’oliva è un prodotto agricolo, che sia tal quale o lavorato.

 

Punto CINQUE. I progressi apportati dalle continue innovazioni.

Lei è completamente fuori pista quando ironizza sui processi di rettifica e le continue innovazioni.

 

Punto SEI. Recuperare il valore e l’identità perduta.

Lei ritorna anche qui sulla netta separazione tra prodotto naturale e prodotto rettificato. Bene, ne prendo atto, ma il punto sei viaggia su altri binari. Lei snocciola considerazioni che esulano da quanto riportato nel Manifesto. E poi, con tutta la franchezza del mondo, che cosa significa mai la distinzione tra “extra vergine naturale” ed “extra vergine non naturale e/o rettificato”? Vola piuttosto alto con la fantasia.

 

Punto SETTE. Il succo di oliva.

Lei scrive, riguardo al Manifesto, che si “svela senza dichiararlo, lo stato di precarietà e di fragilità attuali dell’extra vergine”. Sia più chiaro: lei scrive “senza dichiararlo”? Nel Manifesto compare esplicitamente scritto che “è arrivato il tempo di cambiare volto agli extra vergini, creando un prodotto d’eccellenza…”.

La questione succo di oliva: aceite in spagnolo significa olio, ed è una parola derivante da una voce araba che si traduce in “succo di oliva”. Rischi di sovrapposizione e contaminazione? Non credo. Ettore Franca nel suo intervento invoca semplicemente l’espressione olio di oliva. La questione del nome resta aperta, si deve tuttavia individuare una denominazione che non crei confusione, questo sì. L’olio di oliva è un prodotto che già esiste, e ha un profilo diverso dalle intenzioni di Ettore Franca. Il succo di oliva è una denominazione nuova e può essere risolutiva.

 

Punto DIECI. Nessuna guerra ideologica. Non esiste un olio contadino, un olio artigianale o un olio industriale.

Lei sorvola sui punti otto e nove, che sono invece fondamentali (scienza e coscienza; creazione di una nuova figura professionale: l’oleologo), e preferisce concentrarsi invece sul punto 10, in quanto ritiene che il punto 10 se li mangi tutti. Che dirle? Siamo agli antipodi. L’ideologia purtroppo è una brutta bestia, perché rinchiude le proprie riflessioni nell’orticello protetto delle proprie convinzioni.

 

 Luigi Caricato

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massimo occhinegro

10 aprile 2011 ore 17:37

La lettera del Sig. Mozzi è inficiata, da preconcetti di fondo, probabilmente perché parte da una visione soltanto parziale dell’arena competitiva e dei suoi players. Dalle sue parole emergono precisi attacchi non tanto al “Manifesto per il Risorgimento dell’Olio italiano”, che ne costituisce il pretesto, ma piuttosto, direttamente o indirettamente, verso un solo attore del comparto: l’industria.
Se è vero che in questa fase critica del comparto “olio di oliva” occorra riflettere sul “to do”, è altrettanto vero che innanzitutto sarebbe necessario, oltre che auspicabile, partire da posizioni non dicotomiche, ma di comprensione reciproca. Sicuramente la lettera del Sig. Mozzi non aiuta molto in questo senso. La questione a mio parere più sorprendente ed anche se vogliamo, più paradossale anzi direi più “allarmante”, per chi crede come me nel “Risorgimento”, è che il Sig. Mozzi, che non si è presentato nella sua veste professionale, appare come una persona di “cultura”.
Per questa ragione mi sarei aspettato un intervento più riflessivo sul comparto, un intervento che valutasse serenamente tutti gli aspetti, in un quadro complessivo d’insieme. Ciò non è avvenuto. Ne è emerso un “dipinto” a due colori in cui , gli “Angeli”, ovviamente, sarebbero i produttori oltre che sorprendentemente, la GDO, mentre i demoni sarebbero rappresentati, in via del tutto esclusiva, dall’Industria. Inoltre la visione del Sig. Mozzi è miope in quanto non considera lo scenario competitivo mondiale.
Quest’ idea “tarlo” e questo preconcetto, peraltro trasversale tra i produttori, fanno comprendere che non solo non si conosce il comparto nella sua interezza, ma anche che non si conoscono la storia, nonché le questioni che hanno caratterizzato il passato del settore oleario.
Non ci sono, né ci sono stati solo “Angeli” da una parte e “Demoni” , esclusivamente dall’altra, ma gli uni e gli altri, hanno convissuto e tuttora convivono , permeandone tutta la filiera, così come del resto è avvenuto ed avviene nella società civile, da tempi remoti, almeno per quanto è vecchio il mondo. Anzi, dirò di più , nel passato gli Angeli ed i Demoni spesso andavano anche a braccetto; ma forse questa è un’altra storia che forse il Sig. Mozzi non conosce.
Veniamo alla lettera. Critiche sono state mosse per il fatto che si sia evidenziata la necessità di offrire “pari dignità” a tutta la gamma degli oli di oliva. Il Sig. Mozzi implicitamente salverebbe solo l’olio extra vergine di oliva mentre del resto non saprebbe cosa farsene, a quanto pare. Ma bene inteso, solo l’olio venduto dai produttori sarebbe vero extra vergine, “l’altro” venduto questa volta dagli industriali-confezionatori, sarebbe quello falso. Il falso quindi è una prerogativa sola ed esclusiva dell’industria. Forse possiamo dire un falso d’autore, nella misura in cui , l’industria è anche di marca, avendo investito negli anni milioni di euro in comunicazione, evidentemente mendace, con il solo scopo di ingannare il consumatore.
Il Manifesto , in questo senso, parla chiaro. Occorre salvare e salvaguardare tutti gli oli di oliva perché tutti derivano dall’unica materia prima “l’oliva”. E poiché è impensabile che tutto l’olio di pressione prodotto possa essere classificato Extra Vergine e che anche in quest’ambito, ci possono essere oli non eccellenti, anche la figura dell’oleologo, contribuirebbe ad una sua più precisa “classificazione” , non trascurando anche le “innovazioni” della ricerca del comparto per il suo miglioramento.
Alcuni numeri possono forse aiutare. L’Italia ha una produzione media effettiva di 350.000 tonnellate di olio di pressione. Solo 150.000 – 200.000 tonnellate potrebbero forse essere considerate come “extra vergine”. Molte tra le zone più produttive (Salento e parte della Calabria) sono anche zone di produzione di olio lampante. I numeri ufficiali che partivano dalle 750.000 – 800.000 tonnellate del passato, se non di più, sono d’incanto negli ultimi anni, diminuiti. Per colpa dell’abbandono degli uliveti? Mah ,chissà perché.
Ancora oggi non sono disponibili dati aggiornati sulla produzione italiana ma solo e sempre stime. In Spagna, ad esempio è possibile controllare “on line” i dati produttivi. Anche questo è un esempio dell’arretratezza del nostro sistema. I dati sui consumi parlano invece di 750.000 tonnellate di consumo nazionale. E’ quindi evidente che l’Italia è importatore netto già solo a partire dal soddisfacimento della domanda intera.
Quindi quella quantità esigua da noi prodotta (piccola giacché posta a confronto con una produzione globale di 2.948.000 tonnellate di olio di pressione) deve essere valorizzata, diversamente diventeremmo ancora più nani di quello che già siamo.
Il Manifesto parla di “gerarchia di valore” ed è evidente che solo una chiara etichettatura oltre che una adeguata comunicazione , possano riuscire a trasmettere tale distinzione di valori. D’altra parte mi pare che anche gli oli di semi siano, per la maggior parte, prodotti oggetto di estrazione e raffinazione, e che abbiano caratteristiche nutrizionali diverse.
A mio parere tutti gli oli di oliva hanno valori nutrizionali superiori agli oli di semi, ed è per questo che dobbiamo anche pensare a contrastare la concorrenza con gli oli di semi , soprattutto nell’uso per frittura, dove dominano incontrastati. Se pensiamo anche ai mercati internazionali, dove l’olio di oliva non essendo un prodotto autoctono, è misconosciuto, l’approccio con oli più delicati (quali l’olio di oliva e l’olio di sansa di oliva) è sicuramente uno strumento utile per approcciare i consumatori esteri abituati agli oli “flat” , per poi condurli verso olii più “pregiati” e nell’ambito di questi, quelli che hanno gusti più “decisi”. Sicuramente è meglio operare in questo modo, piuttosto che offrire oli extra vergini “deodorati” che l’innovazione della ricerca ha aiutato a scoprire per via analitica. E badiamo bene che qui sottolineo un male dell’industria per far capire che la riflessione sui “mali” deve essere generalizzata. Se poi vogliamo comprendere le cause e le origini di questo male, dovremmo fare una relazione a parte, che includerebbe anche il “buon” mestiere della GDO.
Continuando con ipotesi competitive sane, gli oli più “delicati” diventerebbero il nostro prodotto “civetta”, usato questa volta in modo intelligente, (contrariamente a quanto avviene grazie alla “GDO Angel”) , con il fine “nobile” di dirottare i consumatori verso un prodotto con un valore aggiunto più alto , aiutando quindi tutti gli attori della filiera.
Al momento chi persegue questa strada è la Spagna, mentre noi siamo al palo giacché si incontra la riluttanza anche di alcuni importanti protagonisti della filiera olearia, sul fronte “industriale” ed anche da parte delle stesse associazioni dei produttori i quali, “dimenticano” che gran parte della produzione olearia non è “direttamente” fruibile (oli lampanti) ma è pur prodotta. Ma forse si vorrebbe che tali oli venissero impiegati nel campo energetico, rivitalizzando il significato di “lampante” , in chiave decisamente più moderna ed al passo con i tempi.
L’industria venderebbe quindi oli non naturali. Infatti i piccoli sarebbero gli unici a vendere un prodotto naturale e genuino, mentre i secondi venderebbero, per contro, un prodotto “taroccato”; questo sembrerebbe il concetto che il collega lettore, vorrebbe far intendere. La domanda sorge spontanea: ma chi vende l’olio extra vergine di oliva ai confezionatori? Non sono forse i produttori ed i frantoiani?
Se poi guardiamo ai bilanci delle imprese olearie scopriamo che a fronte di fatturati di centinaia di milioni di euro, in alcuni casi, ci sono mediamente utili molto, se non estremamente modesti. Se invece guardiamo, dall’altro lato i bilanci della GDO, scopriamo che al contrario questa volta gli utili sono di altra dimensione. E quale ne sarà la ragione? I fatturati milionari sono frutto della capacità dell’industria di saper affrontare i mercati con capacità ossia con risorse umane migliori nonché con gli investimenti costanti i impianti e macchinari ma anche in comunicazione. Una riflessione: chi ha lanciato l’olio di oliva nel mondo? Forse i produttori? Chi ha continuato ad investire nel comparto, i produttori?
E perché le industrie hanno investito ed i produttori no? Non è forse perché i secondi possono comunque contare su provvidenze comunitarie che le rendono per questo in molti casi, inefficienti?
Se è vero che in Italia abbiamo il record del numero delle DOP è vero anche che molte sono assolutamente inutili, nate per creare ulteriori divisioni territoriali e quindi ulteriori frammentazioni, al fine di creare posti di lavoro o meglio poltrone.
La frammentazione di qualsiasi comparto non aiuta il comparto stesso giacché le strategie di sviluppo eventualmente pianificate, non possono essere implementate in quanto carenti di almeno due requisiti essenziali: capacità e denaro. Chi ha avuto modo di stabilire contatti con alcuni consorzi DOP ha potuto verificare come in molti casi ci sia “approssimazione” e poca professionalità.
Anche qui ovviamente non bisogna fare di tutta l’erba un fascio. Ci sono consorzi DOP ben organizzati e ben condotti che possono essere da esempio per altri. Talmente da esempio, che in alcuni casi altri consorzi DOP hanno fatto un “copia ed incolla” delle caratteristiche degli olii, tali da non poter essere rispettati dai propri.
Le divisioni sono dovunque quindi e mentre noi ci dividiamo sempre di più, gli altri godono, comprano i nostri marchi più prestigiosi, e impongono i propri grazie ad una strategia comune che noi ci sogniamo di avere. Altri Paesi a parte la Spagna, crescono invadendo i mercati internazionali a nostro danno ossia a danno di tutto un comparto.
In buona sostanza noi diventiamo sempre più nani e sempre più poveri, continuando a lottare tra di noi, mentre gli altri fanno i numeri, crescendo sempre di più. Diventa allora necessario che i players più importanti rappresentati da Assitol, Federolio, Unaprol, Confagricoltura, Consorzio di garanzia dell’extra vergine di qualità, si riunissero e facessero le riflessioni più giuste per aiutare il sistema Italia dell’olio considerando le nostre forti lacune anche se non soprattutto in termini produttivi, (300.000 contro 2.948.000 tonnellate di cui sopra e 750.000 solo necessarie per il consumo interno e quindi a part l’export) lasciando stare tutti i preconcetti che pure esistono, da una parte e dall’altra.
Massimo Occhinegro