Editoriali
Dare voce a persone in carne ed ossa
17 ottobre 2009 | Alfonso Pascale
Con la solita franchezza che lo contraddistingue, Pasquale Di Lena ha denunciato su questa rivista (link esterno) la solitudine in cui gli agricoltori italiani sono stati lasciati dalle proprie organizzazioni di rappresentanza nel fronteggiare i cambiamenti impetuosi degli ultimi decenni. âLâera della conoscenza nella quale viviamo â egli conclude â richiede discontinuità con culture e prassi finora utilizzate e soprattutto coinvolgimento e partecipazione per affermare la centralità dellâagricoltura, un settore che più di altri è espressione di attualità e modernità â.
La crisi di rappresentanza dellâagricoltura italiana, di cui parla Di Lena, si trascina da oltre un ventennio. Si potrebbe, infatti, far coincidere il suo avvio con il primo vero scontro sulla riforma della Pac, quando alla fine degli anni Ottanta, a seguito del Piano Delors, denominato âPortare lâAtto Unico al successo: una nuova frontiera per lâEuropaâ, ed allâavvio della politica strutturale, la Commissione licenziò il documento dal titolo âIl futuro del mondo ruraleâ. In esso si precisava che âlo sviluppo rurale non doveva essere soltanto un problema collaterale per la politica dei mercati agricoli, ma un legittimo obiettivo con pieno dirittoâ.
Si trattò di una svolta significativa che venne sostanzialmente subita dalle organizzazioni agricole italiane. Nessuna di esse colse lâoccasione per ripensare profondamente il proprio impianto progettuale e porsi nei confronti dellâEuropa in termini non più difensivi ma propositivi.
La svolta si era resa necessaria perché lâincremento della produzione agricola, indotto dalla Pac, si era ben presto trasformato in accumulo di eccedenze e in aumento incontrollato della spesa comunitaria; e tale situazione era diventata un impedimento alla modernizzazione del settore perché le garanzie di mercato infiacchivano lo spirito imprenditoriale. Inoltre, gli squilibri si erano dilatati ulteriormente perché le risorse erogate, essendo proporzionali alle quantità prodotte, assicuravano i maggiori benefici alle aziende più grandi e a quelle che producevano in abbondanza.
Ma in Italia vi era una ragione ancor più di fondo per accogliere immediatamente con favore la svolta comunitaria: negli anni Sessanta, il processo di modernizzazione della nostra agricoltura si era concluso evidenziando la persistenza della molteplicità dei sistemi agricoli territoriali e della pluralità dei modelli aziendali. E la diffusa presenza di aziende familiari era il segno inequivocabile che continuava a covare, sotto la cenere della grande trasformazione delle campagne, quel capitale sociale in grado di valorizzare la multifunzionalità dellâagricoltura. Sicché riscoprendo e rivitalizzando - con unâadeguata politica di sviluppo rurale - valori immateriali (stili di vita, patrimoni culturali, tradizioni, ecc.), prodotti storicamente dalle comunità e legati allâesistenza di beni relazionali (reciprocità , dono, conoscenza diretta) e non solo alle relazioni di mercato, si sarebbero potute assicurare durevolezza e autenticità alle risorse collettive dei diversi territori.
I governi italiani dellâepoca erano alle prese con una profonda crisi del sistema politico interno, esplosa con la caduta del muro di Berlino. Si erano, infatti, definitivamente frantumate le ragioni ideologiche che avevano fino a quel momento cementato le appartenenze ai maggiori partiti e alle principali organizzazioni professionali ad essi collegate. Dissoltosi il collante che li teneva insieme, gli attori rilevanti della politica agricola italiana vivevano una fase di profondo sbandamento e, perciò, non riuscivano a cogliere le novità che emergevano nelle campagne italiane e a svolgere un qualche ruolo nei negoziati comunitari.
Questa situazione di stallo si è protratta si può dire fino ad oggi, impedendoci di incidere in qualche misura nelle ulteriori riforme della Pac. Ma la cosa più preoccupante è stata, a mio avviso, la scarsa consapevolezza delle continue e rapide trasformazioni che sono avvenute nelle campagne e nelle città italiane, perché la ricerca socioeconomica ha utilizzato e utilizza tuttora solo i freddi numeri delle statistiche, senza prendere in considerazione anche il vissuto delle persone e delle comunità .
Dovremmo, invero, ritornare allâinchiesta militante - quella dei De Martino, degli Olivetti o dei Dolci per intenderci - e dare voce a persone non idealizzate ma a quelle in carne ed ossa, che abitano territori determinati, per leggere la realtà così comâè percepita da chi vive in un determinato luogo, senza generalizzazioni prive di senso.
Troveremmo così comunità e territori fragili, che rischiano di perdere ogni possibilità di sopravvivenza economica e culturale, perché non câè più protezione sociale e produzione di beni pubblici per loro: non ci sono più scuole, presidi sanitari, uffici postali, mezzi di trasporto pubblico.
Troveremmo aree ad agricoltura intensiva in Puglia che hanno perduto ogni rapporto con le comunità locali e dove un caporalato totalmente in mano ad organizzazioni malavitose internazionali ha assunto le forme agghiaccianti dello schiavismo ai danni di immigrati non africani ma polacchi.
Troveremmo aree periurbane dove non si addensano più soltanto le âvillettopoliâ dei ricchi e i tuguri degli immigrati e dei nomadi, ma anche le abitazioni delle persone che rifuggono lâimpazzimento delle città e ricercano in attività agricole di prossimità una seconda chance per dare un senso alla propria esistenza. Ad esse si aggiungono le abitazioni a basso costo dei nuovi arrivati dalle zone più interne e dei nuovi poveri, che pur lavorando saltuariamente hanno perduto lâindipendenza economica e sociale.
Troveremmo in determinate aree collinari e montane percorsi innovativi e strategie imprenditoriali volti a rendere compatibile unâeconomia agricola competitiva con un modello che rispetta la centralità della persona e il rapporto interattivo uomo-natura.
Occorrerebbero, dunque, corposi programmi di ricerca sul campo volti a svelare â attraverso lâarte, la natura e la storia ma anche mediante il racconto delle condizioni di vita, dei disagi e delle aspirazioni delle persone â la trama di paesaggi in trasformazione. Forse così â e non solo compulsando generici dati numerici - si potrebbe racchiudere, in un progetto scientifico e narrativo che raccolga storie di vita, il senso di culture agricole e rurali che da tempo si vanno integrando con culture urbane.
La città e la campagna sono ancora considerate come due mondi separati e distinti. Dal primo si dipanerebbero i grandi poteri del nostro tempo â la scienza, la tecnica, la finanza, il mercato â emersi con forza con la terza rivoluzione tecnologica, dopo quella agricola e quella industriale, e da cui si intendono prendere le distanze; dal secondo un nucleo vivace di agricolture non omologate ai processi industriali irradierebbe modelli di vita, di produzione e di consumo alternativi a quelli imperanti.
Se questa fosse davvero la realtà , la crisi economica e le emergenze energetiche e climatiche non farebbero altro che porre in risalto le contraddizioni dellâattuale modello di sviluppo e i paesi ricchi non dovrebbero fare altro che âritornareâ sui loro passi, recuperando un rapporto coi propri mondi rurali che, ormai emancipati dalle condizioni di arretratezza del passato, potrebbero alimentare economie locali, come tasselli di un grande mosaico alternativo al modello finora imperante.
Nellâattuale configurazione di poteri, funzioni e relazioni è illusorio pensare di âritornareâ ad una mitica età rurale, anzi câè da aspettarsi unâaccelerazione del salto tecnologico verso traguardi che noi nemmeno immaginiamo. Lâinterazione tra tecnologia e mercato è, infatti, un motore potente che assicura una sorta di rivoluzione permanente. Lâirreversibilità del processo non deve, tuttavia, spaventarci perché non è la sua inarrestabilità lâorigine delle crisi odierne: economica, energetica e climatica.
Lâerrore è stato di aver pensato che non fosse possibile introdurre elementi di razionalità nel processo. E dunque ci siamo estraniati da esso rinchiudendoci nei localismi incorruttibili e nei saperi nostalgici o erigendo facili quanto illusorie trincee nel tentativo di combattere tale processo.
Abbiamo reagito ai fenomeni della smaterializzazione e della a-territorialità , indotti dalla globalizzazione, e alla conseguente perdita del senso del luogo con due atteggiamenti sbagliati ma speculari: o lâopposizione pregiudiziale o lâadesione acritica.
Câ è stato, infatti, anche chi ha pensato che in fondo non fosse necessario razionalizzare il processo perché tanto ci avrebbe pensato il libero mercato. Insomma un misto di conservatorismo, ingenuità e rassegnata impotenza.
Ora, a seguito della crisi economica e finanziaria, tocchiamo tutti con mano la necessità di progettare il futuro e, dunque, di riprenderci la nostra funzione di costruire lo spazio del nostro abitare. Se un ritorno a qualcosa va perseguito, questo non può essere altro che il recupero dellâidea di doverci dotare di una rinnovata visione riformista in grado di produrre più conoscenza scientifica e politiche di medio-lungo periodo. Lo dobbiamo fare però non combattendo come un donchisciotte contro la âcittà â e i suoi potentati per crearci uno spazio âaltroâ, ma assumendo la nuova dimensione urbano-rurale, che è il nuovo mondo e lâinsieme delle sue risorse, dei saperi scientifici e di quelli contestuali, come terreno del nostro agire.
Non si tratta di abbracciare il vecchio e inservibile cosmopolitismo da âsiamo tutti cittadini del mondoâ ma di fare i conti con le nuove paure, le insicurezze e i disagi della modernità , diffusi in modo impressionante nelle odierne società , perseguendo un benessere non meramente consumistico ma inteso come ricerca di un senso da dare alle nostre vite e alle nostre capacità e come esito di più conoscenza, più mobilità , più cura dei giovani, più inclusività . Eâ qui che le antiche culture rurali e cittadine potrebbero esprimere davvero le loro potenzialità e fare in modo che ad alimentare i saperi del gusto e dellâospitalità non siano lâegoistica propensione al âchilometro zeroâ o il rifiuto romantico e retrivo delle contaminazioni culturali ed etniche sulle nostre tavole, bensì i valori di reciprocità e mutuo aiuto propri di un mondo agricolo che non ha mai separato lâeconomia dalle relazioni sociali, la concezione della natura come prodotto dellâinterazione tra uomo e ambiente, il ruolo propulsivo della ricerca scientifica nella formazione della cultura alimentare italiana che avendo unâorigine urbana è stata da sempre una scienza.
La lingua tedesca chiama con la medesima voce lâarte di edificare e lâarte di coltivare. âAgricolturaâ e âcostruzioneâ hanno lo stesso termine: Ackerbau; âcontadinoâ ed âedificatoreâ hanno un comune modo di dire, Bauer, e lâantica radice Buan significava âabitareâ.
Per governare un territorio, non più urbano né rurale, e abitarlo in modo consapevole, dobbiamo âri-tornareâ ad unificare tutti questi significati e riconoscerci come costruttori e manutentori dei paesaggi che abitiamo. Si tratta, in sostanza, di progettare i territori come processo di autoapprendimento collettivo e di edificazione di un nuovo Welfare, di sviluppare più conoscenza scientifica integrandola con saperi locali, di rinunciare alla concezione antropocentrica oggi dominante in tutto lâOccidente riconoscendo la finitudine umana e di dotare la politica e le istituzioni di un ruolo europeo e planetario per introdurre più regole nellâeconomia reale e non in fantomatiche âaltreâ economie, contribuendo a razionalizzare i problemi globali.
Occorre riscoprire il senso del Genius Loci, inteso come il âterzo termineâ che sta tra me e il paesaggio che contemplo e che mi contempla, una sorta di âterzo paesaggioâ, una costruzione mentale e culturale che definisce la mia identità . Ma senza feticizzare le radici e blindare la comunità contro lo straniero perché lâidentità si riconosce nellâalterità e lâospitalità è più antica di ogni frontiera.
Una nuova rappresentanza dellâagricoltura potrà nascere solo se vi saranno organizzazioni in grado di mettere a frutto il loro patrimonio di valori etici in un processo siffatto, partecipando attivamente alla progettualità dei singoli territori e dotandosi di una dimensione europea in quanto solo a quel livello è possibile incidere effettivamente nelle scelte che riguardano i produttori agricoli.
In questi venti anni, il vuoto lasciato dalle antiche forme della rappresentanza agricola è stato colmato da appartenenze plurime, molto diffuse nellâambito della multifunzionalità agricola (part-time, biologico, agricoltura sociale, imprenditoria al femminile, nuove professioni rurali che nascono di continuo dalla sovrapposizione delle coppie lavoro/impresa, agricoltura/industria e agricoltura/servizi), che hanno dato vita a nuove associazioni come Aiab, Alpa, Rete Fattorie Sociali, Reti semi rurali, Rare, Civiltà Contadina, Rete degli orti di pace, dei sentieri della biodiversità e dei contadini custodi, Crocevia, Altragricoltura, permesso il rilancio di strutture storiche come Acli Terra e attratto lâimpegno di numerose associazioni ecologiste, come Legambiente, Wwf, Italia Nostra, o del Terzo Settore, a partire dalla cooperazione sociale, o legate alla cultura del cibo e del territorio, come Slow Food, o consumeristiche oppure addirittura di genere, come le Donne del Vino con un approccio di filiera.
Molti produttori hanno dato vita spontaneamente a reti locali e aderiscono a più strutture a seconda delle loro specifiche esigenze. In sostanza, siamo in presenza di una molecolarità associativa che ricerca forme di rappresentanza, relazioni tra associazioni e tra queste e la politica diverse da quelle che esistevano fino a venti anni fa, come è emerso nellâambito del Progetto Inea âPromozione della cultura contadinaâ e nelle iniziative sullâagricoltura periurbana organizzate dallâInu nellâambito dellâevento annuale UrbanPromo.
Mentre Cia e Confagricoltura â mi duole dirlo - ripropongono le solite parole dâordine come se si trattasse di colmare un ritardo in un campo dâazione rimasto pressoché immutato, Coldiretti è lâunica grande organizzazione che ha preso atto della nuova condizione e, benché in solitudine, tenta di presidiare il proprio spazio con il progetto âCampagna Amicaâ, ultimamente denominato âFiliera agricola tutta italianaâ.
Una presenza poco ambiziosa, limitata alla filiera senza includere il territorio e lâinsieme dei legami sociali e non solo economici che le imprese agricole costruiscono con altri soggetti locali. Del resto è noto che la Legge italiana di Orientamento, rispetto alla sua omologa francese, è monca proprio sugli aspetti territoriali.
In realtà , lâulteriore molecolarità associativa dovrebbe spingere la rappresentanza agricola non già verso un indistinto processo unitario che aveva un senso negli anni Sessanta e Settanta nel quadro di unâeconomia fordista, ma evolvere in una logica di poliarchia, di articolazioni a rete, di distretti rurali di economia solidale, di costruzione dal basso nel quadro di un nuovo progetto di dimensione europea, che può nascere tuttavia solo riconoscendo e studiando le trasformazioni profonde che sono intervenute in questi decenni.
Quello che sappiamo con certezza è che nei territori italiani vi è una moltitudine di soggetti economici e sociali che vorrebbe partecipare attivamente ai processi di sviluppo locale e concorrere alla definizione delle scelte globali che riguardano il proprio futuro. Vi è dunque in agricoltura e dintorni una vasta domanda di rappresentanza che rimane inevasa.