Editoriali
Qual'è il valore aggiunto del cibo italiano?
30 maggio 2014 | Anna Rita Fioroni
Basterebbe ragionare come sempre con i dati per comprendere quanto la domanda di food made in Italy proveniente da tutto il mondo cresca ancora, nonostante la crisi economica.
Una richiesta che non arriva più solo dai Paesi tradizionalmente importatori di cibo italiano, come Germania o Usa, ma anche dall’India, sempre più attenta al consumo di olio, formaggi e pasta; dal Brasile, dove crescono a dismisura ristoranti italiani e gelaterie, sino alla Cina, Russia ed Australia, sensibili alle abitudini alimentari dell’Occidente e dove sono particolarmente ricercati i nostri prodotti IGP della dieta mediterranea come pasta e mozzarella.
L’italianità ha molti mercati da tutelare ed altrettanti da esplorare.
Non si riconosce solo dietro a un marchio o a un’etichetta. A giocare un ruolo chiave è il “made in Italy alimentare” fattore garante della qualità, del gusto e della sostenibilità del nostro saper fare.
L’italian food è sinonimo di cultura, di benessere, cioè di nutrizione equilibrata e ancor più di stile di vita.
E’ questo il valore aggiunto del cibo italiano e del settore agroalimentare che con coraggio, nonostante le difficoltà e la continua lotta alla contraffazione, guarda sempre più oltreconfine. Export come valvola di sfogo e di redditività; come carta vincente per non soccombere alla crisi. Come ancora di salvezza per molte PMI attive nel campo della moda, del design, dell’arredamento.
Ma quando si parla di Food made in Italy parliamo subito di narrazioni diversamente declinate dell'eccellenza italiana, con un notevole potenziale di espansione in termini di Pil, di posti di lavoro, di indotti ancora tutti da generare.
Siamo nel campo dell’eccellenza: di prodotti che costituiscono il vanto e l’orgoglio della produzione italiana, il motivo per cui il “Made in Italy” si è fatto strada nel mondo.
Il cibo italiano è uno straordinario testimone della nostra storia; il suo utilizzo e la sua evoluzione sono strettamente connessi ai luoghi, al tessuto sociale, alle tecnologie disponibili, alla Cultura che intorno al cibo abbiamo saputo generare. Più siamo in grado di tutelare ed amplificare questo spazio, più riusciremo a ridurre gli spazi commerciali dei prodotti contraffatti che si fregiano di essere italiani senza alcun titolo. Per questa ragione diventa importante avvicinare le nuove generazioni alla consapevolezza di un bene unico e prezioso, perché il cibo buono non fa solo bene alla salute, ma contribuisce in maniera determinante alla rinascita economica del nostro Paese.
L’Università dei Sapori, che da qualche anno mi fregio di Presiedere, si adopera per fornire una interpretazione autentica del made in Italy alimentare e preparare professionisti del food e della ristorazione in grado di presentare al mondo, in termini di stile e di distinzione, il valore aggiunto del cibo italiano.
Lo chef esprime una professionalità in continuo mutamento, la sua cucina è fatta di ricerca, di rispetto delle tradizioni e della storia del territorio ma anche di contaminazioni e tecniche. Molti dei nostri allievi diventano imprenditori e ambasciatori della cultura enogastronomica italiana. Valorizzano le produzioni locali, incidono positivamente sull’indotto, avvicinano il consumatore al cibo con un atteggiamento etico e responsabile. Sono in grado di veicolare il cibo, come un prodotto culturale, rafforzando i sentimenti associati alla sostenibilità. Ci avvicinano al gusto attraverso la memoria: perché il cibo è cultura, ricordo, valore.
E’ un’esperienza sensoriale che solamente il vero made in Italy può esprimere. E quando tutto questo avviene siamo stati capaci, come italiani, di difendere non questo o quel prodotto, ma linguisticamente e concettualmente, quello che siamo.
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