Editoriali

Sotto lo stesso tetto, per forza

03 novembre 2012 | Alberto Grimelli

La produzione italiana d'olio d'oliva è insufficiente e insoddisfacente. I prezzi, se le aspettative dei produttori si realizzassero, sarebbero troppo alti per soddisfare le necessità delle classi meno abbienti. La soluzione? Lasciare che l'industria adempia a un compito “di primo ordine di natura economica e di natura sociale”, quindi è opportuno “che sia lasciata libera di svolgere la sua benefica attività” affinchè non si incida “gravemente sui bilanci familiari della popolazione meno abbiente”.

Un quadro quanto mai attuale, unitamente a frasi che possono essere ascritte a uno qualunque dei polemisti che popolano l'attuale scenario olivicolo-oleario.

In realtà ho riportato la diatriba tra fautori degli oli di semi e degli oli d'oliva degli anni 1930. In particolare le espressioni virgolettate sono di Gerolamo Gaslini, noto industriale che si è diviso tra Lombardia e Liguria. Allora non mancarono gli scontri, che coinvolsero anche la politica. Seppure fossimo in pieno regime fascista, vi fu un duro confronto all'interno del governo tra i favorevoli all'olio di semi (Bottai, Ministro delle Corporazioni) e all'olio d'oliva (Acerbo, Ministro dell'Agricoltura).

La sola differenza, oggi, è che la battaglia è tutta interna al comparto olio d'oliva tra chi vuole che agli industriali e ai commercianti sia data mano libera, in un'ottica commerciale e speculativa globalizzata, e chi vuole salvaguardare la nostra olivicoltura, anche a costo di un iperdirigismo e un'iperlegiferazione.

Chi ha ragione? Chi ha torto? Ovviamente dipende dai punti di vista e dagli interessi che, manco a dirlo, divergono sensibilmente.

I commercianti e gli industriali fanno valere i vantaggi economici, occupazionali e strategici di mantenere questo settore dell'agroindustria in Italia. Al contempo bisogna riconoscere che l'olivicoltura e l'industria molitoria significano anch'essi posti di lavoro, diretti ed indiretti, oltre a un notevole bacino impositivo.

I grandi marchi italiani sono leader su molti mercati internazionali, dando lustro all'immagine nazionale. La storia millenaria dell'olivicoltura italiana, i paesaggi olivetati che piacciono tanto ai turisti, la tutela idrogeologica e la preservazione del territorio sono ugualmente valori da preservare mantenendo gli oliveti nazionali.

I commercianti e gli industriali possono vantare il merito di fornire olio d'oliva di qualità standard a prezzi competitivi, così venendo incontro alle esigenze delle classi meno agiate. Prezzi troppo modesti, però, non garantiscono la sopravvivenza delle aziende olivicole e dei frantoi nostrani che hanno bisogno di più alti standard qualitativi per spuntare prezzi più remunerativi sul mercato.

Solo qualche esempio per rendere lampante quale sia il combustibile della contrapposizione quotidiana tra gli attori della filiera.

E' chiaro ed evidente che si tratta di mondi diversi, con approcci e persino schemi mentali differenti.

E' dunque opportuno mantenerli, forzosamente, sotto lo stesso tetto?

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Redazione Teatro Naturale

05 novembre 2012 ore 10:28

Gentile Grimelli,

il Suo articolo “sotto lo stesso tetto, per forza” mi ha ricordato una passata questione,
tra Caricato e Sodano iniziata il 24 luglio 2010 (“uno schieramento a difesa dell’olio italiano”)
e proseguito l’11 settembre (“non può esserci pace nel mondo dell’olio”)
in cui avevo cercato di entrare con alcune riflessioni che, purtroppo per merito della tecnologia, hanno visto la luce molto in ritardo rispetto ai tempi del dibattito
e sono arrivate a destinazione quando i destinatari se n’erano andati.

Si parlava, come succede a scadenze ritmiche, del comparto, o dei comparti, dell’Olio da Olive:
in particolare, era la questione “artigianale/industriale” riferita all’Olio Extravergine di Oliva.

Che ritenevo allora, e ritengo adesso, di grande importanza:
purtroppo solo virtuale ed esibitiva, perché passano gli anni e non succede niente.

Anzi, non succedendo niente succede che la distinzione “artigianale/industriale”
rimanga solo accademia: come volevasi dimostrare.

Per colpa di una comoda pigrizia, non mi sento di ripetere le mie note, salvo per chi, amante
dei reperti storici, voglia avventurarsi e scendere nella biblioteca di “strettamente tecnico -l’arca olearia” del 23 ottobre 2010 (o per chi volesse mai abusare della mia testardaggine,
cercare nella “voce dei lettori – lettere” del 9 aprile 2011
sul tema del Manifesto per il Risorgimento dell’olio italiano).

Mi sembra che la questione “artigianale/industriale”, senza aprire ogni volta i riferimenti
alla filologia, come fosse una medicina o al marketing, come se fosse una iattura,
o alla boxe, come fosse un metodo, sia piuttosto semplice:
per dire, mi viene in mente il pane.

Anche il pane ha nobili genitori agricoli, e come l’olio, anche il pane è una merceologia,
che si divide in categorie differenti.

Anche nel pane si potrebbe parlare, magari già lo fanno, di prodotto (categoria) artigianale
distinto dal prodotto industriale: e anche nel pane, come nell’olio, nessuno dovrebbe offendersi.

Anche nel pane, come nell’olio, la fase della produzione non dovrebbe implicare differenze di processo

Perché parlare di artigianale e di industriale, non significa fare valutazioni o confronti:
proprio perché sono due categorie differenti.

Si possono fare confronti o dare giudizi, all’interno della categoria Extravergini artigianali
tra un Olio Extravergine da Olive Taggiasca e un Olio Extravergine da Olive Coratina:
ma non si dovrebbero fare comparazioni tra un Olio Extravergine e un Olio di Oliva,
se non per dire che sono due categorie differenti (regolate da normative precise e ineludibili).

Un po’ come potrebbe succedere nel pane, quando si parla di crackers o di panfocaccia,
di pane integrale o di pan carrè.

Senza che nessuno si offenda o si senta demonizzato: anzi.

L’Industria e l’artigiano hanno aree di competenza, capacità, opportunità, valori, organizzazioni, strategie, processi, forze commerciali differenti: molto.

Ma nessuno dei due dovrebbe sentirsi autorizzato a credere di essere superiore all’altro:
appunto perché diversi.

Dove la diversità non impedisce ruoli paralleli e, come dire, nessun produttore di DOP si sentirà offeso se un prodotto DOP viene commercializzato da una grande e nota industria:
in quel momento sarà sempre un prodotto “artigianale”.

Così come nessuno si permetterebbe mai di pensare che il pane “industriale” sia meno gustoso o meno salutare, del pane “artigianale” prodotto dal panettiere che ciascuno ha sotto casa:
anche perché, non di rado, quel pane “artigianale” viene prodotto da una signora Industria.

Quindi la questione artigianale/industriale non si risolve con il gioco delle contrapposizioni,
per esempio quello tra grande e piccola industria: nemmeno nel mondo dell’Olio Extravergine.

Perché il problema non è “chi” lo fa, ma “come” lo fa.

E il dibattito prenderebbe una bella strada costruttiva, se venisse lanciato sul “come”, invece che sul “chi”.

Potremmo cominciare a capire chi fa cosa: e, soprattutto, come lo fa.

Gigi Mozzi

Alberto Grimelli

04 novembre 2012 ore 17:27

Gentile Bertini,
accetto la critica, che reputo assolutamente positiva e costruttiva, di essere “uscito” con ritardo. Ne farò tesoro ma non per questo mi sentirà urlare e sbraitare su queste pagine. So benissimo che la polemica tira e attira, cattura l'attenzione e l'occhio. So che, oggi che il gossip la fa da padrone, un bello scontro personale, magari condito di qualche insulto e alcune offese, fa share. Così si fa rumore, non si dialoga e tanto meno si fa cultura.
Un ultimo appunto riguardo al consumatore che ritengo meno “fesso” di quanto si creda. Se oggi sceglie i grandi marchi è perchè li reputa più convenienti e sicuri di altri nomi sconosciuti sugli scaffali dei supermarket, indipendentemente dalla provenienza e dalle certificazioni. Considerando che dedichiamo all'acquisto di ogni singolo prodotto non più di 30 secondi è chiaro che l'occhio cade sul prezzo e sui marchi. Il primo passo è allora far in modo che il consumatore dedichi qualche secondo in più alla scelta dell'olio, che si soffermi davanti allo scaffale, occorre stimolarne la curiosità, portandolo a chiedersi cosa ha in più l'extra vergine da 9,99 rispetto a quello da 2,99 euro. Oggi immagina che esista una qualche differenza, magari si pone la domanda, ma non avendo risposte va sull'”usato sicuro”, ovvero i grandi marchi preferibilmente in offerta. Occorre fornire la risposta a questa implicita domanda, con un messaggio che deve essere chiaro, univoco e semplice.
Ecco perchè la rissa non aiuta. Tanta più confusione c'è, tanto più il consumatore sceglierà l'”usato sicuro”.
Buona campagna olearia

Antonio Bertini

04 novembre 2012 ore 15:09

Gent.le Grimelli, confermo il mio commmento di prima riguardo alla sua analisi lucida e puntuale. Voglio solo aggiungere che la sua corretta analisi è uscita fuori su questa testata forse leggermente in ritardo, permettendo a qualcun altro di scrivere e di diffondere inesattezze per troppo tempo. E ha ragione La Pira quando afferma che è stato letteralmente insultato quando scriveva del limite alto degli alchil esteri. Purtroppo è stato eliminato con il limite a 75 mg/kh solo il 30 per cento di falso olio extravergine di oliva, il resto è in vendita con il consumatore ignaro. Perchè l'unica cosa che conta in questa disputa è la trasparenza e la corettezza delle regole che continua a non esserci nelle etichette dell'olio extravergine di oliva soprattutto laddove si vuole far credere ancora che l'olio di oliva extravergine viene tutto dalla Toscana o dall'Umbria come ahimé recitano alcune grandi marche dei miei tempi andati (Mimmo Craig con... la pancia non c'è più...)

Alberto Grimelli

04 novembre 2012 ore 09:59

Il settore oleario italiano, e non solo quello italiano, avrebbe bisogno di una tregua, se non di pace. Invece assistiamo a uno stillicidio quotidiano causato da interessi opposti e contrapposti. Ovvio che in un simile contesto trovare una politica di filiera concorde è assolutamente utopistico. Anche durante i tavoli istituzionali è solo un fiorire di accuse reciproche, di litigi, di scontri. E' assolutamente inutile attribuire colpe e responsabilità agli uni o agli altri. Ognuno fa i propri legittimi interessi. C'è poca, o nulla, disponibilità a fare un passo verso la controparte, per paura di venire fregati.
Tutto è utilizzato, e utilizzabile, per alimentare lo scontro. Gli alchilesteri non fanno eccezione. L'introduzione del metodo e il limite a 75 mg/kg hanno permesso di eliminare, secondo una ricerca del Dott. Cerretani, il 30% circa di extra vergine di scarsa qualità e sospetto di essere deodorato. E' questa la ragione per cui, caro La Pira, non posso essere d'accordo col suo titolo d'allora, ovvero che con il reg 61/2011, l'Ue ha autorizzato i deodorati. Vi ha posto anzi un argine, semmai non troppo alto perchè frutto di un compromesso. Da una parte l'industria che ha bisogno di oli a buon mercato, specie per conquistare all'extra vergine paesi tradizionalmente consumatori di oli di semi, e dall'altra i produttori che chiedono un innalzamento qualitativo per giustificare prezzi più alti e spuntare un minimo di remunerazione. E' chiaro che qualsiasi ulteriore trattativa, in sede Coi o Ue, che porti a un limite ribassato, magari a 50 mg/kg, non soddisferà né gli uni né gli altri. Lo scontro, così, è destinato a protrarsi all'infinito.
E' per questo che mi chiedo se, tenendo conto della situazione, non sia preferibile separarsi e fare un tratto di strada ognuno per conto suo, magari ritrovandosi più avanti quando industria e artigianato, nicchia e massa, anche nel mondo dell'olio d'oliva, non saranno più concetti astratti ma entreranno nella coscienza collettiva.

Roberto La Pira

03 novembre 2012 ore 20:07

Caro Grimelli,leggo sempre con interesse i suoi articoli e apprezzo la lucidità delle analisi. Anche questa volta sono d'accordo con lei. Ma leggendo poi il commento di Bertini mi è venuta in mente una storia di qualche anno fa, quando dopo l'approvazione della norma sugli alchilesteri ho scritto su ilfattoalimentare.it che l'Ue aveva sdoganato l'olio deodorato trasformandolo in extra vergine. Sono stato l'unico a farlo e ricordo di avere ricevuto insulti e attacchi da quasi tutto il mondo che gira intorno all'olio italiano. Qualcuno è venuto a trovarsi in studio accusandomi di fare giochi strani, altri mi hanno dato dello sprovveduto, dell'allarmista, dell'ignorante, anche se ho sempre utilizzato sempre fonti molto qualificate. Adesso dal suo editoriale e dalle parole di Bertini devo dedurre che forse le mie tesi e quelle dei miei esperti non erano del tutto prive di fondamento. Perchè allora non portare avanti in modo chiaro e trasparente l'ipotesi di due categorie di olio extra vergine, ognuno sotto un tetto diverso.
Roberto La Pira

Antonio Bertini

03 novembre 2012 ore 07:49

Analisi lucida e puntuale, con una domanda retorica sul finire. E' noto a tutti quelli di buon senso che siamo di fronte a due prodotti diversi e solo il limite di 75 mg/Kg li tiene forzosamente nella stessa categoria commerciale. Olio di oliva extravergine quello dei produttori dalle buone pratiche, olio di oliva extravergine (?) deodorato quello industriale. Deodorato perchè l'industria non riesce a lavorare i grandi quantitativi allo stesso modo dei piccoli produttori e quindi qualche fermentazione parte, dove le olive aspettano di essere lavorate, e obtorto collo bisogna deodorare. Sarebbe onesto però comunicarlo al consumatore in etichetta, che è stata eseguita oltre ad una estrazione meccanica (come vuole la norma per l'extravergine), anche un passaggio in corrente di vapore sotto vuoto per allontanare i cattivi odori o "off flavours". Niente di così clamoroso, solo che questo olio si chiama olio di oliva e non è lo stesso di quello prodotto con le best practices. Non mi sembra complicato...