Editoriali
L'olio italiano non basta più
10 settembre 2011 | Alberto Grimelli
I grandi marchi si muovono alla ricerca di nuove strategie e nuove frontiere che passano fuori dai confini europei e fuori da quelli del bacino del Mediterraneo.
Occorrono nuove leve di marketing visto che l'energia creativa dei designer per il packaging e degli esperti per la differenziazione non permette di raggiungere margini di guadagno soddisfacenti.
Serve qualcosa di nuovo, tanto che si tratti di export quanto che si tratti di consumi interni.
Ecco allora che, quasi in contemporanea, Colavita e Monini lanciano i loro nuovi prodotti.
Colavita guarda oltre frontiera e, visto il ritorno del patriottismo americano, imbottiglia un extra vergine californiano per il mercato statunitense.
Un'idea non originalissima visto che l'ha avuta anche il gruppo spagnolo Borges ma abbastanza innovativa da aggiudicarsi le simpatie dell'Università di Davis e dei circoli benpensanti americani che, a suon di scoop e ricerche di mercato, cercano di boicottare l'extra vergine europeo.
Usa è meglio? Eccovelo servito. L'azienda è made in Italy? Dettagli. Business is business.
Decisamente aggressivo il look della nuova bottiglia Monini che ha visto l'esordio sul mercato italiano sugli scaffali di Esselunga.
Cosa c'è di nuovo ne “il Primissimo”? Che non è olio italiano, neanche europeo ma arriva direttamente dall'Australia dove i Monini hanno impiantato olivi nel 2004 e 2005 e ora esportano il 10% della loro produzione australe in Italia.
E' un olio fresco, perchè appena molito, e quindi potenzialmente affascinante per il consumatore nostrano. Se poi consideriamo che ha un prezzo accessibile. Ecco la finestra per fare business.
Queste aziende fanno il loro lavoro, devo fare utili e superare la crisi ma il modo in cui si stanno muovendo per ottenere questo risultato fa scattare un campanello d'allarme, anzi due.
Di fronte a un ritorno di campanilismo in terra straniera, più o meno strumentale, le aziende italiane non difendono l'italianità e l'immagine del nostro Paese ma si piegano, si adattano, si addolciscono. Il made in Italy, in altre epoche, li ha fatti ricchi ma non ci pensano un minuto a buttare tutto a mare pur di salvaguardare margini e profitto.
Anche in patria, a onor del vero, l'immagine del nostro prodotto è logora e per rivitalizzarla occorrerebbe un buon rianimatore ma ancora non è stato trovato, tanto che il made in Italy soffre, stando alle rilevazioni di mercato. Ecco allora l'idea di sfruttare la nostra naturale esterofilia e lucrarci un po' su.
Il segnale lanciato dall'industria italiana dell'olio, dopo gli allarmi di Assitol sulla possibile delocalizzazione, non poteva essere più forte e chiaro: l'Italia è malata e i grandi marchi non vogliono stare al capezzale di un moribondo.
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