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PHILIPPE DAVERIO: "UN RITORNO ALLA SCOPERTA DELLE PROPRIE RADICI SIGNIFICA ANCHE TROVARE SOLUZIONI SEMPLICI E, SOPRATTUTTO, EFFICACI AI PROBLEMI CONTEMPORANEI"

"Il fatto che non magiamo più come nell'ottocento, non significa che bisogna passare alla civiltà dell'hamburger". Con il noto intellettuale e storico dell'arte abbiamo intrapreso un viaggio ragionato sul mondo rurale, sul suo ruolo e sull'influenza che ha avuto e che potrebbe avere su arte e letteratura

09 luglio 2005 | Alberto Grimelli

Nato il 17 ottobre 1949 a Mulhouse in Alsazia. Baccalauréat francese. Nazionalità francese e italiana. Reimmigrato in Italia per gli studi universitari alla Bocconi. Galleria a Milano e a New York.
Specializzato in arte italiana del XX secolo (futurismo, metafisica, novecento, scuola romana). Editore dei propri cataloghi e di libri di critica e documentazione.
Assessore a Milano dal 1993 al 1997, nella giunta Formentini, con le deleghe alla Cultura, al Tempo Libero, all’Educazione e alle Relazioni Internazionali.
Opinionista per Panorama, Vogue, Liberal. Nel 1999/2000 è stato inviato speciale della trasmissione “Art’è” su Raitre. Conduce attualmente la trasmissione “Passepartout” su Raitre.



- Tradizione, storia, tornare ai rimedi della nonna. Questa è una tendenza che coinvolge molti cittadini. Come se tecnica e tecnologia non apprtenessero al mondo rurale. Come se l’agricoltura non debba stare al passo con i tempi
A me interessa più il ritorno alla scoperta delle proprie radici, più che il ritorno alla tradizione. Nessuna tradizione è, di per sè, viva, però le radici storiche sulle quali ci muoviamo e viviamo sono una cosa diversa. Pensiamo alle nostre abitudini alimentari. Non mangiamo più come nell’ottocento, però questo non significa che dobbiamo passare all’hamburger. Anche la pasta, che è un piatto della nostra tradizione la mangiamo in modo molto diverso da quanto facevamo un tempo, i lombardi, ad esempio, hanno imparato a un cuocerla fino a lessarla, così come i meridionali hanno imparato che anche il riso non va cotto a dismisura fino a farlo diventare colla. Quindi abbiamo mantenuto alcuni parametri linguistici del nostro passato ma li abbiamo adeguati alla nostra contemporaneità. Le vere battaglie, i veri passaggi culturali consistono proprio in questo. Ogni oggetto, mezzo e idea del passato vanno rimessi in discussione, analizzati ogni volta. La tradizione, come reliquia del passato rappresenta allora la citazione necessaria a compiere questo percorso.
- La tradizione è quindi un punto di passaggio, il mezzo non il fine
La tradizione è un riferimento semantico contro il quale è meglio non battersi. La rottura nei confronti della trazione è infatti un crimine che ha delle conseguenze spesso terribili. Prendiamo ad esempio la dichiarazione del sindaco di Milano, nella sua distrazione intellettuale, quando procalmò la “tolleranza zero”. Voleva tradurre, in maniera sbagliata la parola tolerance inglese. Mentre tolerance è semplicemente il rigore, tolleranza ha anche un significato più vasto, perchè implica accettare il diverso. Ecco che allora fare una dichiarazione contro la tolleranza a Milano è un caso assoluto di crimine contro la semantica perchè Milano è la città dove fu promulgato il primo editto della tolleranza in Occidente, da Costantino nel 313 d.C., e ha generato una visione che ha gettato le basi della città e dell’Europa.
- Crisi di mercato crisi dei consumi. I prezzi all’ingrosso dei prodotti alimentari continuano a scendere. Nè le forme di tutela della tipicità (Doc, Dop...) sembrano arrestare la corsa al ribasso. Dopo aver chiesto a economisti, politici e politologi interpelliamo lo storico. Esiste un modo per valorizzare le nostre produzioni?
Noi viviamo in Italia una sorta di patologia schizofrenica, siamo convinti di essere i portatori di una storia e tradizione fenomenale, dall’altra siamo invece afflitti da un complesso di inferiorità. Fenomeno che diventa chiaramente visibile per la Biennale di Venezia. In Italia la realizziamo affidandola a un signore di New York che, a sua volta, chiama due signore spagnole che, arrivando da noi, dichiarano che l’arte italiana non esiste. In un altro Paese la reazione sarebbe, come minimo, una richiesta di spiegazioni e di prove per suffragare simili affermazioni, mentre in Italia le diamo per buone, senza chiederne conto. Simile fu l’invasione del Burghy (ndr ora McDonald), quando ci dissero che quello era il modo moderno di mangiare, e quasi obbedimmo al loro dettame. Al contempo oggi siamo vittime della burocrazia comunitaria, la quale avrebbe come scopo farci credere cose che non sono nient’affatto vere, e che servono a difendere anche delle aree lobbistiche. Non parlo della difesa del lardo di Colonnata o di qualche altra produzione locale, ma non posso accettare, appartenendo a una civiltà che ha 1500 anni, che vengano a impormi assurde norme comportamento alimentare, non posso accettare che decidano dove posso tagliare il salame o vietarmi la possibilità di cuocere le pizze in forni a legna. È un problema di cui si dovrebbe cominciare a discutere, altrimenti la conseguenza finale sarà l’accettazione della standardizzazione assoluta di ogni produzione alimentare e agroalimentare. Una presa di coscienza che non è gastronomica ma culturale, una visione che deve essere cosciente e colta. In alcuni settori la battaglia è già vinta, ma perchè in questi settori era già presente un’aristocrazia comportamentale. Prendiamo il caso del vino. Fino a trent’anni fa più che vino si produceva, in molte zone d’Italia, un alimento. Con una forte spinta e autocoscienza culturale, che è passata anche attraverso il miglioramento del prodotto, si è ottenuto che con un consumo calato del 60% il fatturato sia salito enormemente. Ribadisco spesso una provocazione, dovremmo eleggere a suffragio universale il Ministro dei Beni culturali che deve essere scelto tra i produttori di vino. Una provocazione che però ha un fondamento. Laddove abbiamo saputo unire a una rivalutazione qualitativa del prodotto anche un movimento culturale ci siamo fatti apprezzare e ci siamo anche arricchiti.



-Vi è una strana dicotomia tra arte e letteratura, vedono e sentono il mondo rurale in maniera diversa. Ancora pittori e scultori sono ancorati a una visione bucolica, mentre nella letteratura si affaccia un modello più vicino alla realtà, fatto anche di sacrifici e fatiche. Perchè?
Dobbiamo questa diversità di visione a un fatto molto banale. L’Italia non ha avuto, per lungo tempo, una letteratura. È un Paese unico, forse il più curioso dei Paesi, perchè l’identità e la percezione dello spirito nazionale non sono legate alla letteratura. L’italiano non è mai stato la lingua ufficiale della letteratura italiana, prima della Controrifoma le lingue utilizzate erano prevalentemente il greco o il latino, mentre dopo la letteratura venne inibita perchè si temette che l’uso del pensiero sopravanzasse la celebrazione barocca. Da quegli anni in poi in Italia si diffuse sostanzialmente l’arte visiva, decorativa. In Italia la letteratura ricompare nel diciannovesimo secolo legata, quasi sempre, a un impegno nazionale, neounitario o di pensiero. Le arti visive invece rimangono culturalmente e storicamente le eredi della tradizione barocca, estetica più che di pensiero.
-Il mondo rurale ha dato molto all’arte e alla letteratura nel passato. Come fare a riacquisire se non la centralità, almeno un posto nella sfera culturale del nostro Paese?
Se volessimo dare una visione caricaturale ma riassuntiva dell’Italia nei tempi passati dovremmo definirla come Paese cattolico, poco credente, agricolo e aristocratico. Per diventare moderna quest’Italia storica deve cancellare queste sue radici e per diventare moderna deve “fabbricare” la piccola borghesia. La piccola borghesia sarà allora anticlericale o non cattolica oppure molto credente, non più aristocratica e soprattutto non agricola. Il futuro qual’è? Sviluppare all’infinito la piccola borghesia urbana o riscoprire le peculiarità del nostro Paese. Siamo la nazione più antropizzata sul globo terrestre, forse insieme ad alcune zone della Cina. Siamo l’unico Paese che non ha una natura, perchè la nostra natura è antropizzata. Non c’è da difendere solo paesaggio, alberi e fauna ma anche i rapporti sociali e gli equilibri che si sono instaurati. Per vincere la sfida competitiva globale occorre ritornare a questo nostro carattere unico e difenderlo. Significa tutelare non la natura in senso lato, il fiorellino, ma la nostra natura antropizzata. Ripensare a queste nostre radici e cercare di capire se su queste possiamo fondare un modello per il futuro.
Non siamo nelle condizioni della Svizzera che pensa ai propri agricoltori come a giardinieri delle montagne, dei lavoratori da pagare perchè contribuiscono a mantenere le montagne che sono elementi essenziali dell’economia nazionale. In Italia il mondo rurale è vivo, reattivo, con coscienza di sè. Una coscienza di classe nata con la Controriforma e che perdura nelle aree dove l’industrializzazione non ha rovinato tutto. Ecco che bisogna far capire ai cittadini che quel modello di vita, culturale e di pensiero è qualitativamente e culturalmente interessante, da scoprire e rivalutare. Per scoprirlo bisogna prima però avvicinarcisi, ecco perchè, a parte qualche speculatore, il sistema agrituristico funziona e piace. Si ritrova, venendo a contatto con il mondo agricolo, un tessuto sociale vero e attivo, si tocca il sedimento, si tornano a scoprire le radici. Anche a livello normativo, le leggi che danno più frutti sono quelle che si poggiano su radici culturali e storiche profonde. Perchè ha funzionato la riforma che ha dato un peso alla figura del Sindaco? Perchè torniamo all’Italia comunale e principesca che individuava nel leader del Comune il fulcro, la figura centrale.
- Vuole tirare le somme di questa nostra conversazione?
L’antropologia culturale ha oggi un suo scopo fondamentale. Capire chi siamo e da dove veniamo per capire cosa fare nel futuro non è un esercizio accademico e teorico. Nel momento in cui riscopriamo le nostre radici le soluzioni ai problemi contemporanei scaturiscono da soli, quasi in maniera automatica. Purtroppo i politici, oggi, non se ne accorgono.