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MONTEDORO: “LE ASSOCIAZIONI DI CATEGORIA SONO COLPEVOLMENTE LATITANTI, URGONO RICERCA E DIVULGAZIONE”

“Serve un nuovo concetto di qualità e nuove regole basate su caratteristiche nutrizionali, salutistiche e organolettiche”. Con il presidente dell’Accademia Nazionale dell’Olivo e dell’Olio abbiamo discusso di ampolline, trovando un entusiastico consenso alla nostra iniziativa, oltre che del futuro del comparto oliandolo del nostro Paese

05 marzo 2005 | Alberto Grimelli

Gianfrancesco Montedoro è Professore Ordinario di Tecnologie alimentari nonchè direttore del Dipartimento di Scienze degli Alimenti dell’Università di Perugia.
Attento e noto ricercatore è autore di numerosissime pubblicazioni scientifiche.
Collaboratore di numerose testate è anche il Presidente dell’Accademia Nazionale dell’Olivo e dell’Olio.



- Teatro Naturale ha lanciato una campagna perchè i ristoratori abbandonino le ampolline e comincino a servire ai tavoli bottiglie di extravergine. Condivide questa battaglia?
Assolutamente sì. Non solo condivido l’idea, ma apprezzo anche il tentativo di creare una norma al riguardo. Il consumatore va tutelato da ogni punto di vista, non solo in termini di genuinità di prodotto, ovvero di conformità con le norme vigenti, ma anche per quello che concerne le caratteristiche qualitative, salutistiche e nutrizionali, dell’olio extravergine.
Nelle ampolline, in primis, ci si può mettere qualsiasi olio, ma oltre questo problema, che rientra più nelle competenze della Repressione Frodi, vi sono tutta una serie di altri aspetti. Gli extravergini, si sa, si alterano a causa della luce, del calore e le ampolline sono il contenitore meno adeguato. Il ristoratore favorisce, inconsapevolmente, i processi ossidativi e degradativi, provocando non solo alterazioni degli aromi (difetti di rancido...) ma anche delle caratteristiche nutrizionali e salutistiche dell’extravergine.
Le attuali linee di imbottigliamento sono in grado di confezionare bottiglie di piccole dimensioni (250 cc o meno), pratiche e comode sia per il ristoratore sia per il consumatore. Sarebbero bottiglie che verrebbero esaurite in breve tempo, senza che la qualità dell’olio possa essere pregiudicata.
- Cultura dell’olio. Un problema anche nel nostro Paese. L’extravergine lo si usa abitualmente ma non lo si conosce molto in realtà, tanto che la scelta si orienta spesso sul prodotto al prezzo inferiore. Sembra che qualcosa si stia muovendo, ma molto lentamente. Cosa possono fare gli olivicoltori per imprimere un cambio di velocità?
Molti sarebbero gli interventi per generare cultura dell’olio. Alcuni sarebbero di ordine legale, altri in ambito scientifico, ovvero stabilire e sancire, una volta per tutte, parametri e caratteri qualitativi per l’olio d’oliva. Tutto per arrivare a un concetto di qualità che però è ancora lontano dall’affermarsi.
Il dato certo è che le istituzioni pubbliche garantiscono al consumatore semplicemente la genuinità, ma, nel quadro normativo, sono stati esclusi dei parametri che hanno una diretta ricaduta sulla qualità e peculiarità del prodotto. Limitandosi al regolamento della Ue non esiste differenza fra un olio spagnolo, marocchino, greco, tunisino o italiano. È quindi necessario, come anche emerso nel corso del Forum di Roma nell’ottobre 2004, creare una nuova categoria, un extra vergine di qualità superiore, che si differenzi attraverso l’inserimento di altri parametri analitici che riguardino direttamente caratteristiche nutrizionali, salutistiche e organolettiche.
Nel caso questa soluzione non fosse praticabile rimangono solo le Dop e le Igp oppure, ultima ratio, la norma volontaria Iso 9001 con cui l’olivicoltore stabilisce un disciplinare e una serie di parametri a cui si deve attenere, cercando quindi di spuntare un premio di prezzo per il plus che il prodotto garantisce.
- Purtroppo però le denominazioni d’origine, come evidenziato da una recente inchiesta della nostra testata, non garantiscono questo premio di prezzo, anzi. In questo caso?
Le denominazioni d’origine sono davvero il minimo su cui possiamo puntare, presentano certamente molti limiti e pecche. Il più eclatante è forse che, non sempre, i dati analitici inseriti nel disciplinare garantiscono, da punto di vista strumentale e sensoriale, la possibilità di una presenza di oli estranei alla zona. La tracciabilità e rintraccibilità di una partita d’olio è basata esclusivamente sulla carta, ovvero su procedure amministrative.
D’altro canto anche i numeri non sono confortanti. Se escludiamo l’Igp Toscano e la Dop Umbria le quantità a denominazione d’origine commercializzate sono davvero irrisorie.
- È corretto dire che la ricerca in campo olivicolo e elaiotecnico è molto arretrata? Che non si conoscono molti processi chimico-ficisi e fisiologici nè della pianta nè in fase di estrazione?
Non posso condividere la domanda nella sua interezza.
Mentre sono d’accordo sul fatto che le cognizioni sulla pianta e sul frutto non sono affatto complete (basti pensare che siamo solo agli inizi della tracciatura genomica delle varietà), non altrettanto per la chimica e biochimica dell’olio e la tecnologia di estrazione.
Esiste una ricca bibliografia su queste materie, come pure le conoscenze scientifiche sono ormai assodate e confermate. Il problema principale in questo caso è il trasferimento di queste conoscenze. I frantoiani e, in misura minore, gli olivicoltori, pur consapevoli di certe pubblicazioni e relative nozioni, non sempre vengono messi nelle condizioni di poter sfruttare adeguatamente queste conoscenze e quindi anche di utilizzarle appropriatamente, con ricadute dirette sulla qualità dell’olio. La realtà produttiva è spesso estremamente parcellizzata e frazionata, un ulteriore ostacolo alla diffusione di certe tecnologie o innovazioni.
Occorre un grande sforzo per la divulgazione capillare, per il trasferimento dall’ambito accademico a quello produttivo. Questo in Italia manca, o meglio è lasciato ai singoli o a gruppi che non hanno la forza, soprattutto finanziaria, di compiere un’opera così onerosa. L’Accademia Nazionale dell’Olivo e dell’Olio organizza corsi e pubblica libri, ma rimangono nel ristretto ambito degli aderenti e dei frequentatori. A chi si deve rivolgere l’olivicoltore con un ettaro di oliveto? Chi dovrebbe mettergli a disposizione quella serie di conoscenze che il mondo scientifico produce? Chi se non le organizzazioni di categoria ha questo compito? Purtroppo, fino ad ora, hanno latitato.
- Siamo ormai stati ampiamente superati dalla Spagna sia come quantità prodotte sia come fermento di idee e progetti. Abbiamo perso la leadership. Restiamo, nell’immaginario collettivo, il primo Paese per qualità. Come mantenere almeno questa posizione?
Abbiamo da sfruttare un clima, un terreno e delle tradizioni.
L’Italia ha concentrato le energie sull’estrazione, mentre la Spagna ha investito nell’olivicoltura. L’Andalusia è un immenso oliveto che garantisce alla nazione iberica la leadership produttiva per molti anni a venire. Se sul fronte quantitativo i 10-11 milioni di quintali d’olio all’anno sono un risultato conseguito, sul piano qualitativo hanno ancora molto cammino da fare e molto da innovare e investire.
Quindi credo che la Spagna rimarrà la nazione maggior produttrice d’olio e l’Italia sarà il Paese guida sul fronte qualitativo, grazie alle caratteristiche climatiche, varietali e di ricche tradizioni culturali, nonchè tecnologiche.
Purtroppo anche all’Italia restano comunque molti passi da compiere. Attualmente i costi produttivi sono decisamente troppo elevati, non è avvenuto quel processo di razionalizzazione dei costi e delle tecniche agronomiche che, invece, la Spagna ha operato già da anni.
Occorre quindi non solo lavorare sul fronte del premio di prezzo, per garantire e far percepire che le produzioni italiche hanno standard qualitativi elevati, ma anche sui costi di produzione affinchè l’attuale gap si riduca. Oggi è possibile trovare oli spagnoli che costano un terzo, anche un quarto di quelli italiani perchè hanno saputo innovare portando in campo tecniche e macchinari che hanno consentito loro ingenti risparmi. L’estrema parcellizzazione degli appezzamenti italiana, che limita la possibilità di investimento, unita con oliveti vecchi, funzionali solo alla salvaguardia paesaggistica, rappresentano un grosso limite allo sviluppo della nostra olivicoltura, ma sono ottimista.